Direttore dell’Accademia Mario Sironi di Sassari e docente all’Accademia Albertina di Torino, Bisaccia era una personalità di grande cultura e sensibilità
Nessuna virtù sembra celebrata, nella nostra epoca, quanto l’etica della missione. Se il moderno esaltava la scaltrezza, il coraggio, la conflittualità, l’intraprendenza e la progettualità ideologica, il XXI secolo predilige la moderazione, la prontezza di adattamento al sistema e alle nuove sfide, la capacità di fare conquiste e, soprattutto, di portare a casa risultati affermativi: chi non riesce a terminare una riforma universitaria è nel limbo di quelli che non sono arrivati sino in fondo. E soprattutto è monco.
Perché l’intellettuale-artista moderno, armato di simpatia, cartella a soffietto e invincibile certezza e determinazione politica, è – e necessariamente deve essere – intraprendente, filantropo. Ma cos’è l’intraprendenza? Mica facile definire questa vaga sostanza che ogni individuo vanta di possedere, mentre è portato, naturalmente, a constatarne la mancanza nei suoi riferimenti governativi. Quanto è complesso, infatti, il dizionario del buon costume che siamo pronti a usare per bollare chi, a nostro avviso, di solerzia potrebbe difettare. A occuparsi, con sottigliezze e alacre passione, di riforma del comparto AFAM è stato Antonio Bisaccia, scrittore e accademico dalle mille risorse.
Saggista ed estetologo
Autore di saggi scientifici, racconti, libri per la didattica dell’arte e coordinamenti editoriali che, con erudizione e acutezza, illuminano aspetti chiave dell’alta formazione artistica italiana, rivelando sempre un’inesauribile e vitale curiosità, come dimostra tra l’altro il suo ultimo libro di imminente uscita presso Luca Sossella di Roma: un saggio-progetto sull’identità della transizione accademico-universitaria, fiero oppositore del blocco darwinistico della ricerca disciplinare in arte.
Morsicato ancor giovane dall’inesorabile destino, è stato a poco a poco consumato, finché è morto di male oscuro a 59 anni, giovedì del 23 marzo 2023, nella sua isola d’adozione, in quel di Sassari! Tristissima fine per un saggista, un estetologo, uno scienziato sociale e massmediologo nato con la passione della bellezza, che è gioia. Ma egli ci ha lasciato pur scritto, in una veloce silloge autobiografica: “laddove tu riscontrerai miglior sofferenza, l’arte sarà maggiore”. Antonio Bisaccia completa quel particolare quadro di scrittori siciliani – anzi post pirandelliani – che stanno tra l’ultima risorsa di Sicilia e la prima delle emergenze mediterranee, poeti che dovrebbero somigliargli come le carte da gioco di un medesimo mazzo.
Sassari e Torino
È stato presidente della Conferenza Nazionale dei Direttori delle Accademie di Belle Arti italiane, direttore dell’Accademia Mario Sironi di Sassari e titolare della cattedra di Teorie e metodo dei Mass-Media presso l’Accademia Albertina di Torino. Ha diretto la rivista “Parol – Quaderni d’Arte e di Epistemologia” ed è stato collaboratore di riviste e quotidiani. Ha pubblicato, tra gli altri: Alexandre Alexeieff. Il cinema d’incisione (1993); Effetto Snow. Teoria e prassi della comunicazione artistica in Michael Snow (1995 – Premio nazionale Filmcritica – Umberto Barbaro 1996); Punctum fluens. Comunicazione estetica tra cinema e arte d’avanguardia (2017); Burocrazzismo e Arte (2020).
C’è da chiedersi se Antonio Bisaccia con Fabbriche di bello abbia voluto scrivere un’autobiografia intellettuale. Certamente sì, ma il saggio è soprattutto un’autorappresentazione sociologica di una tensione engagé, che ha bisogno di scenari per esprimersi freneticamente e di luoghi di studio dediti al nuovo umanesimo e alle istituzioni del comparto artistico. Questa avventura di rivelazioni e di frantumazioni, Bisaccia la raccoglieva dalle cronache del comparto AFAM: un luogo giuridico complicato, pregno di conflitti professionali e colori dell’arte. Qui, assieme a una scrittura letteraria e sapiente e ad un’urgenza sindacale, compare la figura poliedrica: del mass-mediologo, dell’estetologo del cinema d’avanguardia, del direttore didattico, dello stratega politico, del romanziere e dell’amico di Roberto Roversi.
Bottega del bello
Nell’epoca dell’individuo atomizzato e nervoso, orfano di qualsiasi tradizione e appartenenza, nell’epoca di quelle che sono state definite “singolarità qualunque” o “bloom”, l’esperienza perduta dello spettacolo può essere ritrovata faticosamente solo attraverso il “destino formativo dell’arte”. Giacché il futuro pedagogico è ciò che rende possibile la giustizia intesa come risveglio della missione istruttiva dell’arte, esso deve essere a sua volta salvato e tramandato. Questo difficile salvataggio della “cassetta degli attrezzi” e della teoria artistica è al centro delle tesi sul concetto di “bottega del bello”, l’ultimo scritto a cui Bisaccia stava lavorando sul confine tra razionalità del dovere e la forza del destino, prima di prendere atto del sopravvento della malattia.
In uno degli appunti preparatori alle “Fabbriche di Bello”, l’officina, la fonderia delle arti contemporanee viene paragonata ad un filo di paglia, a quello Strohhalm a cui, secondo un modo di dire della filosofia tedesca, ci si aggrappa come all’ultima speranza. Al cospetto di un presente ridotto a eterna crisi della “persistenza finanziaria” e di un futuro sistemico dalle tinte fosche, l’unica speranza possibile riteneva fosse rintracciabile nella formazione universitaria, nel laboratorio di ricerca dell’Accademia rinnovata!
Una missione
Si potrebbe fare man bassa di aggettivi, sicuri ogni volta di centrare una discentrata umanità e, al tempo stesso, di non riuscire a dire tutto e il suo contrario, di un teorico delle Arti, straripante di buona volontà e di coscienza, di istinti visionari e di valori etici, di atavici terrori e di apocalittici furori. Un amico che riempie una speranza e una vita per sempre, contrassegnandola col marchio attento e giocoso di una straordinaria emotività responsabile, in corsa affannata col buio della nevrosi e della malattia personale, di difficile risoluzione. E la responsabilità soffia, quella che Max Weber chiamava beruf, alita pesantemente su Antonio Bisaccia e i suoi studi. Le scritture innumerevoli che un intellettuale compie nel corso della sua esistenza hanno una tonalità più o meno spiccata, ma la sola esperienza di beruf è quella attesa fino alla fine, sebbene la sola che si rinnova ogni giorno come perdita di qualche cosa (il tralasciare) o il non riuscire a portare a termine una missione.
Anche il non realizzare è un’esperienza di perdita.
– “Avrei potuto fare questo se…”
– “Non l’ho fatto, quel che volevo ottenere non è stato del tutto ottenuto: è in via di sperimentazione perché non è del tutto attuato”.
L’inquietudine e la nostalgia hanno la stessa origine, il desiderio di qualcosa che non è ancora o non è più. Bisogna intendersi su certi termini. E sperimentare con la riforma universitaria vuol dire provare concretamente, ma c’è un’esperienza diretta e una indiretta. L’esperienza diretta è quella dell’arte come creazione di tutti i giorni: quando guardiamo il quadrante di un orologio (il tempo per portare a termine l’equiparazione universitaria delle accademie, per Antonio Bisaccia, era un assillo costante), o quando stringiamo la mano di un funzionario, sia per continuare una missione sia per prendere qualcosa dell’altro e dargli qualcosa di noi.
Una grande riforma
Incubi e incanti, illusioni e progetti, speculazioni e nostalgie, promesse e piani triennali, si affastellano nel diario di Bisaccia; e l’arte di ricordare appare in calligrafia saggistica o artistico-letteraria, facendo degli eventi più terribili i comma liturgici di una grande riforma da applicare. Si possono sempre aggiungere delle pagine a quelle della sapienza istituzionale, se non abbiamo trasformato il tempo dilazionato dell’AFAM in un’arma di rivalsa e se invece, quel tempo laboratoriale lo abbiamo liberato in un progetto di misericordia? Forse, pirandellianamente, ambiguo? Eccola, la riforma del comparto AFAM: si chiama “Fabbriche di bello” ed è sempre stata lì, in evidenza tra le pagine dell’etica professionale di Antonio Bisaccia.
Una parola insolita per le accademie, sconosciuta ai dizionari del settore: una definizione sostantivata e costruita a partire dall’archeologia della bottega, di solito utilizzata dagli esseri memori del diritto al lavoro di alto profilo. Nelle traduzioni artistiche, questo termine viene reso per lo più con “bottega della bellezza”, fonderia del sapere artistico, come osava definire le Accademie un altro compagno di strada prematuramente scomparso, come Ezio Cuoghi. “Fabbriche di bello” imminente alla pubblicazione del compianto Antonio, resta una eloquente testimonianza della temperie sperimentale della mia generazione: un libro Sturm und drang, animato da una fede escandescente.
Ingegno veggente
I colleghi anziani che l’hanno conosciuto, si esaltano nel luminoso ricordo; i giovani non giunti in tempo a vederlo operativo, lo indovinano con bramosa ambizione e già lo onorano come un bel mito, come un rivelatore. Sanno che, se più vivo è ogni giorno il suo “modello scientifico”, sempre più fertile è la lezione del saggista e del romanziere, che ci ha trasmesso per passione alcune lievitanti parole, dalla pirandelliana attualità. Da poche ore siamo senza di lui, ma son anche poche ore colme di lui. La critica migliore è tutta illuminata del suo nome, trepida di qualche sua parola di cui s’è pudicamente alzato il lembo, perché ne sia riscosso l’aroma, la luce.
Ai suoi tempi di presidente della conferenza nazionale dei direttori delle accademie di Belle Arti, Presidente del Consiglio nazionale per l’alta formazione artistica e musicale presso il MUR, Antonio Bisaccia avvertiva: nove su dieci articoli di riforma impostati come testimonianza all’ingegno veggente, al gusto puntuale, ai giorni della riforma, giovani quanto le sue riflessioni. Nessun problema critico e ritmico, nessuna urgenza espressiva o manierismo, o valore processuale e sindacale, vaghezza di pause, di silenzio, né ragioni di durata o di tono, che egli non abbia sentito, recensito con la sua consapevolezza sicura e ponderata.
Esperienza stratificata
Ma cos’erano o cosa sono mai, alla fine, questi esiti nuovi, questi segni freschi che hanno formato la ricerca del comparto AFAM, se non le progettualità invisibili che egli era avvezzo a scoprire nelle stringhe politiche, tra le quali sapeva ben scegliersi le più vicine, le più sue, onorarle come dei familiari, e al loro contatto continuamente arricchirsi, affinando il gusto della sperimentazione, raffinando la seduzione del caduco? Quella che abbiamo ereditato da Antonio Bisaccia è un’esperienza stratificata, che trova un’immagine privilegiata in un ulteriore frammento di decreto, uno scritto di legge da portare a termine, che forse faticherà a trovare un nuovo sostenitore. Il futuro dell’Università delle Arti viene presentato qui come la quintessenza della concezione sperimentale della storia e della critica delle arti: in base a tale concezione ogni secondo del destino della riforma è la piccola porta attraverso la quale può entrare la Ricerca.
Il cardine, in cui questa porta si muove, è la Nuova Bottega: bottega è il nome della costellazione in cui un determinato momento della storia dell’arte, aprendo così una prospettiva inedita sul futuro, sviluppa nuove occasioni. Il futuro della didattica artistica è, dunque, la Denkfigur (concezione) in cui il pensiero di Antonio Bisaccia nel suo complesso trova una sorta di vertiginosa ricapitolazione. Se è vero che la monade della formazione contiene l’immagine del mondo dell’arte, allora l’idea di riunire tutte le arti, satura di tensioni dialettiche, contiene in se stessa, secondo una formidabile sineddoche teoretica, l’immagine del Bello di Bisaccia. E forse il suo patrimonio più pregiato.