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L’inventario a modo mio. Tami Izko per Fondazione La Raia

Tami Izko, Inventory per Fondazione La Raia, ph. Federico Clavarino
Un ecosistema di ceramica, racchiuso in una grotta. Non accade nel metaverso, ma a La Raia con la boliviana Tami Izko. Che ci porta a (ri)scoprire la biodiversità di un luogo unico

Dieci anni di incursioni artistiche tra le colline del Gavi. Gli stessi da quando la famiglia Rossi Cairo ha dato vita alla Fondazione La Raia, che festeggia il traguardo con la new entry Tami Izko e il suo Inventory. Progetto curato e presentato da Ilaria Bonacossa, a cui preme sottolineare – da navigata direttrice artistica della Fondazione – come ognuno dei nomi chiamati a La Raia sia espressamente invitato a vivere il luogo; a confrontarsi con esso, «Dormendo qui, passeggiando di giorno e di notte». Pertanto – questo però lo sottolineiamo noi – a lavorare interventi pensati più come born-specific che site-specific, concepiti secondo una dimensione fortemente autoctona. Come Inventory, installazione composta da una grotta, arricchita da 32 sculture in grès e porcellana dai colori pastello (più esperienza sonora immersiva, powered by Davide Cairo), tanto in linea con la ricerca della nostra Tami, quanto iconologicamente partorita dalla sua personale esperienza a La Raia. Insomma, Inventory è dentro La Raia, così come ha La Raia dentro. Assieme a Tami ne abbiamo tracciato un identikit, in tre domande tutte per lei.

Questo tuo “scavare” nel paesaggio de La Raia, decifrando il luogo attraverso la classificazione e modificazione di elementi formali, mi ha subito ricordato un’azione di pertinenza iconologica. La butto lì: Inventory sta a Tami Izko come l’Atlante della memoria “Mnemosyne” ad Aby Warburg?
Penso che ci sia una connessione con l’atto di raccogliere e poi rimontare i pezzi insieme nello stesso spazio, con la grotta che funziona come i pannelli nell’Atlante di Warburg. Tuttavia, il mio piccolo inventario è incentrato non tanto sul significato delle cose raccolte quanto sulla loro capacità di diventare sculture, che poi si allontanano dalla loro matrice. Per quanto tra queste trasformazioni si possa riconoscere la forma iniziale, in queste opere un pino non è più un pino, né una roccia è una roccia. C’è una poesia in cui E.E. Cummings parla di un gruppo di ragazze che un giorno vanno in spiaggia. Ognuna di loro riporta o trova qualcosa lì, e realizzando questo lavoro avevo in mente un passaggio: “May è tornata a casa con una pietra liscia e rotonda, piccola come un mondo e grande come lei sola”. Inventory riguarda l’immenso universo che si può trovare nei dettagli, più che le connessioni tra di loro.

Tami Izko, Inventory per Fondazione La Raia, ph. Federico Clavarino

Inventory è di per sé anche un’azione analitica sul territorio: in giro per La Raia hai raccolto da sassi e pigne, a pezzi di suole e corrugati. Concentrarti sulla sola essenza “naturale” del posto, epurandone ogni traccia umana, sarebbe stato come dare adito a una forma di “cancel culture”?
Come ho detto prima, la mia attenzione si è concentrata sulle cose in cui mi sono imbattuta e che erano importanti proprio per la loro non spettacolarità. È qui che è entrata in gioco l’attenzione ai dettagli e ho raccolto in modo conscio/inconscio tracce sia del mondo naturale, che di quello umano che si trovavano davanti a me. C’è un processo di selezione in questa azione, ovviamente, che farà tralasciare necessariamente alcune cose, ma non volevo in alcun modo romanticizzare il paesaggio de La Raia. Avrebbe avuto l’effetto opposto rispetto a quello che intendevo fare. Ho trovato suole di scarpe, un uovo, un pezzo di stoffa, un filo. E, naturalmente, gli elementi della natura ad attraversare il mio cammino. L’unica cosa che è stata temporaneamente annullata in questo metodo è stata l’abitudine di cercare elementi belli e sorprendenti, che si distinguessero in un mondo così pieno di ogni tipo di informazione. La natura è sia molto più semplice che più complessa di così.

Andiamo più sulla genesi del progetto. Quando hai deciso di concentrarti sulla grotta, assumendola come una sorta di “raccoglitore”? Quando che i pezzi arrivati nelle tue mani sarebbero stati sufficienti alla definizione del tuo intervento?
È stata Ilaria, che mi ha invitato a realizzare quest’opera, a suggerire inizialmente la grotta come spazio. Quando l’ho visitata, ho capito che era perfetta per realizzare il mio lavoro. Per motivi tecnici era la location migliore: avevo deciso di lavorare con porcellana e grès, e per quanto questi materiali siano resistenti a tutti i tipi di sbalzi di temperatura e umidità, rimangono fragili e una piccola grotta era un buon “armadio” per proteggerli. Poi, il fatto che la grotta sia nascosta alla vista esalta anche l’intenzione di lavorare sui dettagli e sul delicato equilibrio tra diversi elementi, che coesistono come un ecosistema. La fragilità è al centro di questo lavoro in molti modi diversi. Così come l’equilibrio, perciò c’è stato un momento in cui ho sentito di aver realizzato abbastanza opere da inserire nella grotta, senza sovrappopolare lo spazio, lasciando posto alle piccole creature che lo abitano. E, ultimo ma non meno importante, non ho mai voluto fare un intervento monumentale in questo paesaggio: volevo lavorare attraverso un gesto sottile, che incoraggiasse lo spettatore a guardare più attentamente.

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