Art Basel 2023 (15-18 giugno) ha appena chiuso i battenti con la cifra record di 82 mila visitatori. Si conclude anche lo Speciale Basilea che la redazione di ArtsLife ha dedicato live dalla città svizzera, con 30 articoli sulla regina delle fiere d’arte internazionali. A chiosa del focus, vi proponiamo quest’ultima analisi del direttore, alla quale seguirà a stretto giro un ultimissimo tour sulle vendite globali della manifestazione.
È la tela color tramonto firmata Mark Rothko l’icona quest’anno di Art Basel. Non tanto per i suoi sessanta milioni di motivi tradotti in dollari, quanto per la sua rara elargizione di calma nelle sue temperate temperature di aranci che stemperano le frenesie dei gialli, dilatandosi ai confini del quadro. E oltre. Così accade dentro la fiera, bella e serafica, a tratti frenetica, per lo più amabile e sostenuta, come il ricciolo di miele e sabbia di Gnoli. Così fuori la fiera, passate le otto di sera, quando l’orizzonte del sole assume si taglia tra i ponti sul Reno e brilla danzando sugli spasmi del fiume, bruciando gli azzurri carichi caldi del cielo (sempre, fisso, a trenta gradi). Rothko: invenduto, caro, calmo, languido, bellissimo. Proveniente da una delle collezioni più celebri al mondo, la Mellon, e proposto da Acquavella per accendere gli animi dell’arte sulla scia della pratica poetica del profeta americano di origini lettoni. Una catarsi tiepida che ha avvolto la Messe e la Messeplatz (ornata di palco per concerti quotidiani e interdisciplinari di Latifa Echakhck, preambolo del potenziato e disseminato Parcours per il centro storico), la città intera e il sistema tutto. Una volontà concentrica, in cerca di stabilità e quasi conforto, che si è palesata fin dai primi albori di quest’anno, manifestandosi ai quattro venti nelle arie newyorkesi (dalle aste, con o senza garanzie, alle fiere oltreoceano maggiormente ancorate alla realtà rispetto alle “richieste” solite) di appena un mese fa. Dopo la logica sbornia miliardaria dello scorso anno (la prima stagione davvero post-pandemia) tutto -come ampiamente preventivato- corre verso una logica normalizzazione, quella che gli esperti chiamano “correzione”. Senza drammi né tragedie. Tempi tiepidi, tempi accorti. C’è una guerra a pochi Stati da qua (sia che scriviamo dalla Svizzera che dalla Alsazia o l’Italia…). La Germania la sente, forte, in casa (così come i suoi cittadini, investitori, compratori…). Ci sono, in ordine sparso: recessioni (eurozona in primis), tassi di interesse che volano, inflazione, crisi, crack (bancari o meno), a cominciare dalla Credit Suisse di casa, fallita e acquisita (con il sostegno del governo) dal Global Lead Partner di Art Basel: UBS. Nulla che lambisca, spesso, il sistema dell’arte (anzi, crescono potenzialmente gli investimenti sui segmenti “rifugio”, come il Novecento, e così è, come le trattative private pre e dopo fiera/asta, sempre più forti e silenziose), ma una certa dose di prudenza e cautela viene congenitamente acquisita, appresa. Oltre alla scarsa propensione dei collezionisti tedeschi, risicata l’attenzione degli statunitensi (non c’è la Biennale d’Arte a Venezia per fare il tandem europeo, e c’è una Art Basel sulle rive della Senna fra solo quattro mesi – Parigi è più invitante per un americano). Significativo invece il ritorno della compagine asiatica da dopo il Covid, finalmente liberi di atterrare sul limbo dei tre confini europei di Basilea. Doppia giornata di preview martedì e mercoledì meno nevrotica del solito (tagliati tanti inviti alla First Choice dalle 11 alle 16 di martedì, distribuiti sui due giorni gli ingressi privilegiati alla Preview, pochi gli italiani, si segnala anche la cancellazione del treno Milano-Basilea di martedì mattina). Stand che non cambiano pelle e pareti come al solito (pesante la perdita/partenza/compravendita del Mitchell di Zwirner da 25 milioni già la prima sera; è rimasto saldo allo stand -seppur venduto subito- il ragno di bronzo della Bourgeois da 22,5 milioni; meravigliosi il De Kooning sui celesti di Gagosian, 33 milioni, il Ricciolo di Gnoli da Luxembourg, 9,5 milioni; e il Girolata Tryptich ancora di Joan Mitchell da Pace, 14 milioni, anche questo venduto). C’è calma, non piatta, ma riflessiva. Fiera, come ampiamente scritto e ricordato, alla prima di Vincenzo De Bellis come supervisore dei direttori della quattro kermesse, con Maike Cruse neo direttrice di Basilea (dalla Gallery Weekend di Berlino) pronta all’investitura ufficiale tra pochi giorni. Prima anche per il nuovo corso del CEO Horowitz. Prima per la sezione Kabinet. Migliorata (e trasferita dove si trovava Editions) Future. Potenziata la già citata Parcours. Su questo, da De Bellis in primis, c’è la chiara volontà di implementare e costruire un maggiore scambio e osmosi con la città e le città coinvolte, “Basilea sarà sempre più accogliente” ci tengono a ribadire quotidianamente. La città, dal canto suo, risponde sempre prepotentemente presente alla venuta della sua regina, grazie alla sua storia (è qua dal 1970), alla conformazione più intima di “paese”, e alla maggiore educazione, concentrazione, “contemporanea”. L’atmosfera è viva, affabile, piacevole. Occhio solo all’incalzare della rivale Zurigo, che anno dopo anno incrementa la sua proposta, dalla Gallery Weekend all’offerta museale fino alla nascita di nuove fiere di arte contemporanea. Mostre, nel paese Basilea, quest’anno da rivedere, non esaltanti, a parte Roger Ballen al Tinguely Museum e Shirley Jaffe con le sue masse di colore corallo al Kunstmuseum: maestosa, prima di annacquarsi nella gelida geometria decorativa. Importante anche l’esposizione dello Schaulager per i suoi vent’anni di attività. Nota dolente: i prezzi “tipici”, costantemente folli e respingenti, per quanto la volontà (della fiera, non della città) spinga verso un cambio di passo. Per ora, l’unica svolta è sempre interno fiera: il rinnovamento dell’intero management dopo i 15 anni di Marc Spiegel. La forza della kermesse, da sempre, è quella di innovarsi e reinventarsi costantemente. Art Basel resta e resterà il termometro dello stato di salute del mercato. E la meraviglia temperata del Rothko ne è barometro e testimone. Stress test passato con successo nel complesso. La fiera tiene botta come sempre, niente scossoni in vista a livello di settore, ne saranno conferma le aste londinesi fra meno di dieci giorni. Secondo Novecento americano che ne fa da padrone. Oltre Rothko, vedi alla voce Joan Mitchell, De Kooning, Basquiat (da vedere la mostra alla Beyeler sui leggendari dipinti modenesi, in compagnia della delicata e spettacolare Doris Salcedo), Haring, Guston, Ryman, Bourgeois (con un altro Spider dopo le performance dell’anno scorso sempre qui a Basilea, sempre da Hauser, e delle aste di New York di un mese fa). Stand nel complesso scadenti dal punto di vista critico e curatoriale, flebile ancora la presa direttiva, tangibile la fase di passaggio e rodaggio. Ottime, anche da questo punto di vista dell’allestimento, le performance delle venti gallerie italiane (Galleria dello Scudo, Tornabuoni, Tucci Russo, Noero, Artiaco, Cardi…) e delle tedesche. Il livello si conferma altissimo, come ovvio ma non scontato, e ottima la proposta anche dal primo piano “contemporaneo”, una delle edizioni migliori di sempre (seppur con un ventaglio espositivo impossibile da elaborare, discernere e digerire anche nell’arco di più giorni, data la quantità immane di artisti e di opere, oltre 4 mila) – si segnalano le ancora più stringenti cautele (e tutele) dei galleristi sulla rivendita, causa flipping, dell’ultra-contemporaneo: le condizioni di rivendita sono in genere di almeno cinque anni dall’acquisizione. La pittura continua, wet painting o meno, la sua cavalcata dominante, le vendite seguono il trend di una trasversale cautela. Nel primo giorno ammontavano, dai dati ufficiali da prendere con le pinze, a 245 milioni di dollari, con pochissime vendite a otto cifre confermate anche nei giorni successivi. Significative le vendite sotto i 100 mila euro. Esaurite giornalmente le razioni di Kalbsbratwurst, la salsiccia di vitello locale; di Buttergipfel, i croissant svizzeri saturi di burro, e di Weisswurst dall’Alsazia e dalla Baviera. Stracolmi gli approdi aperitivo socialite post-fiera: dalla Volkshaus (sede anche di Photobasel, che inaugurerà una nuova versione del format a Miami, mentre Design Miami inaugurerà un suo spin-off a Parigi), al Campari Bar (tra le performance live davanti al Theater e allo Stadtkino e i congegni onirico dinamici ad acqua del Tinguely Brunner, Campari presenta per la prima volta anche con una Lounge direttamente in fiera); dal classico Les Trois Rois, cinque stelle vista Reno, al più giovane e squat Basel Social Club, alla sua seconda edizione, nei 12 mila metri quadrati di un’ex fabbrica di maionese (che passata la fiera sarà trasformata in uno spazio culturale permanente incentrato sulla danza contemporanea e sulle arti dello spettacolo). Appuntamento fisso di galleristi e avventori rimane, sempre e comunque, il bagno, sul fiume.Traversata bagnata bramata più di qualsiasi aperitivo, cocktail, dinner, party e quant’altro. Chi può, collezionista, è partito giovedì o venerdì scorso dall’EuroAirport (Basel Mulhouse Freiburg) verso Minorca, direzione Illa del Rei, per la preview della mostra di Christina Quarles da Hauser&Wirth. Chi può, con un velo di poesia, si rilassa sulle sponde del fiume guardando l’acqua scintillare e i toni di Rothko arrossare. È finita la fiera.