Il progetto proposto da Fosbury Architecture all’Arsenale analizzato da un docente della Oxford Brookes University
Fosbury Architecture è un collettivo di architetti fondato da Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Claudia Mainardi e Veronica Caprino nel 2013. Da cortometraggi e restauro di edifici a fanzine, curando libri e installazioni, il loro interesse è rivolto maggiormente ai processi che ai prodotti, e all’interazione con il pubblico. L’architettura, secondo Fosbury Architecture, è una “pratica di ricerca” che va oltre la creazione di artefatti. Il design è sempre il risultato di un processo collaborativo che trascende lo one-man-show tipico del moderno archistar. Lo spazio, ai loro occhi, è sia un luogo fisico che simbolico, un’area geografica e una dimensione astratta, un sistema di riferimenti riconosciuti e un campo di possibilità inesplorate.
A Fosbury la definizione di “architetto” sta stretta. Preferiscono definirsi designer, curatori, ricercatori, incubatori di progetti e risolutori di problemi. Il loro punto di partenza è la fine dell’antropocentrismo, come dichiarato dal filosofo, psicologo, sociologo e biologo argentino Miguel Benasayag. Il quale ritiene che la questione della sostenibilità ambientale debba farci riflettere sul consumismo. Il risultato è un ritorno ad un ricongiungimento tra uomo e natura che supera la separazione tra soggetto e oggetto propria della modernità.
Nove aree
In qualità di curatori del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia nel 2023, i Fosbury hanno individuato nove aree rappresentative di situazioni di fragilità o di trasformazione nella penisola italiana. Lì dove altrettanti gruppi transdisciplinari sono stati chiamati a cooperare. Ogni gruppo di progettazione ha quindi collaborato e continuerà a collaborare con una serie di incubatori – attori locali come musei, associazioni e festival culturali – per radicare ogni progetto nel proprio territorio di riferimento. In questo modo, tali progetti disegneranno le tappe di una nuova geografia, diventando mete simbolo di un rinnovato Viaggio in Italia.
Il lavoro di ciascun gruppo risponde a una serie di questioni urgenti nel contesto italiano e per la disciplina architettonica in generale: sfide “impossibili” se affrontate globalmente ma, “possibili” se gestite localmente in modo da produrre risposte immediate e tangibili. Tra queste, il “Post Disaster Rooftops EP04” (Taranto), del collettivo Post Disaster; “Siren Land” (Baia di Ieranto, Napoli), degli architetti BB; “Sot Glas” (Trieste), di Giuditta Vendrame; e “Uccellaccio” (RipaTeatina), del collettivo HPO.
Complessa stratificazione
Tale approccio, non immediatamente intuibile a causa della sua molteplicità, non rappresenta solo un assemblaggio di concetti, ma anche e soprattutto un modus operandi. Come accade nel fotoritocco, il risultato finale non svela la complessa stratificazione delle operazioni eseguite.
Il punto di partenza, ovviamente, è lo stesso Dick Fosbury, l’atleta americano che rivoluziona il salto in alto con l’introduzione di una spinta all’indietro (back-first). Estremamente influente, quest’ultimo impatta diverse generazioni a partire dalla sua introduzione ai Giochi Olimpici del Messico più di mezzo secolo fa.
Chiaramente, sono molti gli aspetti della realtà contemporanea che riguardano il lavoro di Fosbury, tra cui la de-colonizzazione e la sostenibilità. L’Antropocentrismo o, meglio, la presa di distanza di Fosbury da esso, è però l’aspetto che desidero maggiormente affrontare.
Antropocentrismo e architettura
L’antropocentrismo ha radici antiche, soprattutto in Occidente, dove è acuito dal cristianesimo. L’idea che il pianeta Terra sia al centro dell’universo, che l’universo sia circoscritto, che il sole ruoti intorno alla Terra e che l’umanità sia essenzialmente un dono divino, ha dato origine nel corso dei secoli ad una serie di questioni, tra cui l’egemonia sulla natura e l’ambiente.
Rinunciare a questa posizione è fondamentale per Fosbury perché la conquista della natura, seguendo un approccio che potremmo definire dall’alto verso il basso, sta provocando il caos nel nostro ambiente. Non c’è “me” senza “noi”, e non c’è comunità senza mondo: questo probabilmente il loro messaggio finale. E come arriva esattamente Fosbury a questa conclusione?
Violenza contro la natura
In primo luogo, abbandonare l’antropocentrismo è un compito arduo poiché quest’ultimo è stato originariamente sviluppato come meccanismo di difesa contro la natura. A questo proposito va riconosciuta la fragilità della condizione umana. La città e, accanto ad essa, l’architettura, sono infatti vere e proprie forme di violenza contro la natura. L’artificialità dell’architettura, per definizione, si contrappone al regno naturale. In questo senso, il progetto in corso di sviluppo presso la Baia delle Sirene (Napoli), e che si articola attraverso un dialogo con la mitologia antica sia greca che romana, sembra fondamentale a questo proposito.
La natura non si è mai dimostrata una madre benevola per l’antica Grecia, sia a causa della mancanza di spiegazioni scientifiche esistenti sui fenomeni naturali all’epoca, sia delle condizioni meteorologiche che interessano questa regione geografica. Dire “torniamo alla natura” non è pertanto né semplice né scontato. Da qui l’opportunità di interpretare il loro percorso come una sorta di “ferita narcisistica” autoinflitta. L’umanità è posta di fronte alla necessità di fare un passo indietro dalla sua presunta posizione di privilegio nei confronti dell’universo.
Il narcisismo occidentale
Molte ferite narcisistiche si sono succedute nel corso della storia dell’uomo, progredendo dal Rinascimento italiano in poi. Il passaggio, nel Medioevo, da uno stile di vita inteso come devoto alla beatitudine ultraterrena ad uno in cui l’affermazione personale acquisisce sempre più rilievo nel Rinascimento, potrebbe essere visto come l’apice dell’espansione del pensiero antropocentrismo. La nascita della modernità può a questo proposito essere intesa come fondata sul concetto della centralità dell’uomo e sulla corrispondente scissione tra l’artificiale e il naturale come esemplificato dall’antica polis greca. Da questo momento in poi, la città si sviluppa come difesa dagli elementi.
Non a caso, è il Rinascimento che svela le enormi potenzialità dell’uomo, dando origine al noto adagio che “ognuno è artefice della propria fortuna” tanto quanto Dio è il più grande architetto di tutti i tempi. Il rapporto privilegiato riconosciuto tra l’uomo e Cristo, così ben sintetizzato dall’uomo Vitruviano di Leonardo, non è solo un potente manifesto dell’architettura classica, ma dello stesso antropocentrismo. Se gli architetti hanno acquisito una posizione venerata nella società, è stato proprio grazie alla dichiarata capacità di leggere il “disegno” divino attraverso la matematica e la geometria.
Declino dell’antropocentrismo
L’euforia, però, non dura: le scoperte, durante il barocco italiano, a favore del sistema eliocentrico, rappresentano la prima ferita narcisistica riconosciuta. Una ferita talmente grande da spingere la Santa Inquisizione ad accusare Galileo Galilei – uno dei più grandi scienziati del suo tempo – di eresia per aver spogliato del suo potere la Chiesa. I dubbi sul ruolo dell’umanità nel cosmo sono sollevati una volta per tutte.
Alcuni secoli dopo, Darwin e il darwinismo fanno la loro comparsa, e quando la tesi che gli umani sono più vicini alle scimmie piuttosto che a Dio/Cristo è sostenuta, la seconda ferita narcisistica è alla porta. L’affermazione di Sigmund Freud secondo cui l’inconscio umano, piuttosto che il libero arbitrio, determini chi siamo e cosa facciamo, è l’armageddon di una posizione non più sostenibile. L’antropocentrismo è finalmente in declino.
Gettare il bambino con l’acqua sporca
Questa consapevolezza acquisita, che oggi informa ovunque azioni e tendenze umane, rischia però di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Infatti, se da un lato l’atteggiamento difensivo, sia fisico che mentale, è una caratteristica umana, dall’altro l’architettura è stata e continua ad essere essa stessa espressione privilegiata dell’antropocentrismo, almeno in occidente. Si pone quindi la questione di come si possa immaginare una nuova pratica architettonica che non sia utopica, nel senso più deleterio del termine. Cioè una pratica disciplinare che non sia né imposta dall’alto né segua il principio del one size fits all perseguito dagli architetti modernisti e postmodernisti attraverso l’imposizione di principi e/o linguaggi universali.
Questo, mi sembra, sia l’atteggiamento scelto, accolto e abbracciato da Fosbury Architects. Non a caso, l’architettura diventa, con Fosbury, site-specific, cosí da includere il pubblico attraverso percorsi curatoriali e partecipativi. Oltre che un work-in-progress, le loro mostre diventano momenti di scambio cui tutti sono invitati. Pratiche artistiche e architettoniche contemporanee si incontrano secondo un approccio del tutto originale.
Dialogo orizzontale
L’impossibilità di etichettare l’approccio di Fosbury è probabilmente un buon punto di partenza per apprezzare il loro lavoro perché è il punto esatto in cui esplode la fluidità della modernità. Non più soggetto isolato, chiunque può finalmente godere di questo lungo cammino verso la libertà. Attraverso un atteggiamento collettivizzante in cui cultura e architettura si fondono.
Tutto ciò è testimonianza di una mentalità antropologica ed etnografica. Originariamente rigettato da un approccio narcisistico alla progettazione, l’uomo e la sua fragilità sono finalmente contemplati dal progetto in un costante dialogo orizzontale con l’ambiente piuttosto che in un atteggiamento prevaricatore. Si sviluppa così una costellazione di idee, atteggiamenti, strategie e tecniche e una lettura “verticale” del sito d’intervento paragonabile alla ricerca archeologica. Scavando nelle stratificazioni della memoria, tecnici di intelligenza artificiale, pensatori, scrittori, grafici, ecc. sono chiamati a intervenire.
Architettura e “psicomagia”
Non è un caso quindi che in una delle aree selezionate, Uccellaccio, gli architetti dissotterrino i cocci abbandonati sul posto dalle generazioni precedenti. Re-incantamento, ri-significazione e ri-poeticizzazione diventano la chiave per rimettere l’esistenza umana al centro del progetto, anche se in modo del tutto diverso da quanto possa essere mai accaduto prima.
D’altra parte, lo stesso psicoanalista e pensatore francese Jacques Lacan, afferma che l’inconscio non si trova del nostro io più profondo, come credeva Freud, ma piuttosto nella collettività là fuori. In qualche modo in linea con quanto credeva anche lo psicanalista e filosofo austriaco Karl Gustav Jung, questo apre la strada alla ri-simbolizzazione del cosmo. Di qui l’enfasi posta, per esempio, sulla mitologia greca.
Utopia “dal basso”
Contrariamente all’era moderna, dove la frammentazione e il solipsismo hanno raggiunto il loro apice, gli dei greci hanno facilitato l’interazione umana con la natura – qualcosa che gli antichi greci essenzialmente non comprendevano ma che rispettavano e condividevano. Ciò richiede un quadro simbolico che possa consentire il riemergere di un senso di unione e collettività. Questo sforzo è così ambizioso che potrebbe essere considerato una nuova forma di utopia; ciononostante, una forma di utopia “dal basso”, per così dire, che trae ispirazione dalle condizioni locali, dalle abitudini culturali e dalle tradizioni. Principi che sono insieme universali e locali vengono sviluppati in parallelo.
In tutto questo, infatti, è presente un atteggiamento curatoriale che contempla effetti sia fisici che metafisici. Se l’atteggiamento fisico emerge attraverso un procedimento archeologico, inteso come riscoperta della cultura locale, e della storia di un’intera comunità, di un popolo, l’atteggiamento metafisico emerge attraverso la riattribuzione di valore e significato a qualcosa che il mondo moderno ci ha abituato a scartare, quegli aspetti apparentemente insignificanti della vita quotidiana che costituiscono la nostra esistenza passata, presente e forse futura come comunità. A questo proposito, non esiterei a definire l’importanza che Fosbury attribuisce all’armonia e ai valori esistenziali “psicomagica”.
Micro-scala
Tutto sommato, si potrebbe tranquillamente affermare che il contributo più significativo di Fosbury all’architettura contemporanea è probabilmente la comprensione del ruolo e del significato che l’architettura ha in un mondo in profonda trasformazione; un ruolo e un significato completamente diversi dalle epoche che abbiamo attraversato. Invece di occuparsi di edifici o mega-progetti, la loro architettura si concentra forse sulla micro-scala. Ma una micro-scala in relazione diretta con la macro-scala in quanto contesto più ampio. Questo dialogo è da intendersi come nuova forma di meta-narrazione dei moderni stili di vita. I quali vanno reinterpretati, e perfino riscritti, ma sempre facendo dell’architettura il centro gravitazionale e la forza propulsiva di un nuovo inizio.