Sei dipinti vedono alcuni Pokémon – tra cui Pikachu, Eevee, Snorlax – inseriti in celebri opere di Van Gogh. La mostra del Museo Van Gogh di Amsterdam, un’operazione più commerciale che artistica, è visitabile fino al 7 gennaio 2024.
Nintendo e il Museo Van Gogh qualche settimana fa avevano annunciato una collaborazione che vedeva protagonisti i Pokémon e il pittore olandese. L’avevano fatto attraverso un video semplice ma coinvolgente che vedeva Pikachu ed Eevee correre per un prato in una giornata soleggiata. Mano a mano però tutto assumeva i caratteri espressionisti tipici di Van Gogh, con le nuvole gonfie, i cipressi, i mulini all’orizzonte.
Che al centro dell’iniziativa ci fosse un’operazione di marketing era più che ovvio, ma le precise dinamiche in cui si sarebbe concretizzata lo erano decisamente meno. Ora che esse sono manifeste e hanno assunto le sembianze di una mostra, è lecito chiedersi quanto l’operazione rispetti l’identità dei soggetti in gioco (quanto quindi sia credibile, coerente e organica) o quanto al contrario si configuri come retorica, opportunistica e forviante.
Partiamo dal contenuto. La mostra comprende sei dipinti appesi a una parete temporanea nell’atrio del primo piano del museo. In ognuno di essi un Pokémon o più Pokémon fanno capolino in un celebre dipinto di Van Gogh. E fin qui niente di rivoluzionario. Ad attirare l’attenzione è però la firma posta su queste opere, realizzate da veri artisti che si sono esposti per l’iniziativa, e non da un’intelligenza artificiale o qualcosa di simile.
Naoyo Kimura, illustratore del Gioco di Carte Collezionabili Pokémon dal 2001, ha realizzato un Pikachu ispirandosi all’Autoritratto di Van Gogh con il cappello di feltro grigio. Sowsow, illustratore di carte Pokémon dal 2018, ha dipinto un Eevee con indosso il cappello di paglia di Van Gogh, ma anche Snorlax addormentato sul letto de La camera da letto del pittore. Le opere, da intendere chiaramente in senso ironico, non vogliono certo presentarsi come reinterpretazioni delle opere, quanto come una sorta di episodio crossover dove i pocket monster fanno improvvisamente irruzione nel mondo della pittura.
Anche se, a ben guardare, almeno due questioni prettamente artistiche sono da evidenziare. La prima è che Van Gogh non ha mai dipinto molti animali, a maggior ragione così da vicino. É quindi interessante vedere i suoi quadri improvvisamente animati da questa vitalità, forse però fin troppo gioiosa per il tono emotivo dell’opera del pittore. Risiede proprio qui, probabilmente, il maggior effetto straniante della collaborazione. I Pokémon e Van Gogh divergono completamente se compariamo le principali narrazioni che di loro si fanno. Da una parte delle creature allegre, che combattono senza rabbia, colorate e vivaci, sempre alla ricerca di avventure in compagnia dei loro allenatori; dall’altra un artista tormentato, solitario, quasi annichilito dalla povertà e dalla malattia, come del resto il museo racconta in tutto il percorso espositivo, salvo ovviamente il muro giallo dedicato ai Pokémon.
Vi è poi un secondo aspetto che lega le due dimensioni dal punto di vista culturale. Ovvero il debito stilistico-ispirazionale che Van Gogh deve all’arte giapponese. Nell’appiattimento della prospettiva, nei contrasti cromati, nell’approccio spirituale al paesaggio. Lo racconta lui stesso in una delle tante lettere al fratello Theo, riportata in esposizione, che parzialmente sutura lo strappo contenutistico di cui dicevamo prima: “É impossibile studiare l’arte giapponese, mi sembra, senza diventare molto più felici e allegri“.
Volendo approfondire l’analisi, possiamo citare forse un altro legame, forse però fin troppo lineare e semplice, privo di implicazioni che non si fermino alla superficie. Ovvero che un Pokémon, Sunflora (di cui è ovviamente presente un dipinto), sia a tutti gli effetti un girasole, ovvero uno dei fiori più rappresentati da Van Gogh, indubbiamente uno dei suoi simboli.
Sono queste ragioni artistiche sufficienti per giustificare un incontro tra due realtà così distanti? Probabilmente no. Senza esprimere particolare giudizi etici e morali, che probabilmente nemmeno servono, è altrettanto lucido e di buonsenso accettare la collaborazione per quello che è. Ovvero due realtà giganti, due brand immensi, che uniscono gli sforzi per diventare ancora più potenti. Uno dei pittori più famosi della storia dell’arte che apre i suoi dipinti ai personaggi di uno tra i videogiochi-manga-anime più importante del mondo nipponico e non solo. Due superpotenze dei rispettivi ambiti che provano ad aiutarsi proprio uscendo dai confini finora esplorati.
Di certo le due realtà garantiscono una risonanza mondiale dell’iniziativa. Come è possibile immaginare che il Museo Van Gogh, anche grazie alle iniziative realizzate ad hoc, spera di attirare bambini e ragazzi al museo, magari instillando loro, attraverso il gioco, l’amore per Van Gogh e l’arte in generale. E, perché no, vendendo un bel po’ di merchandising dedicato. D’altra parte, il mondo dei Pokémon, anche qui attraverso la produzione di gadget appositi, mira ad ampliare un mondo già vastissimo. Per esempio, stanno andando a ruba le carte da gioco dei Pokémon con il disegno di Pikachu-Van Gogh, che il Museo regala a chi partecipa a determinate attività legate alla mostra. Immaginiamo già il mercato secondario piuttosto reattivo nell’approfittare della nuova mania.
E in sostanza, il merito (o la strategia, definite voi il grado morale dell’iniziativa) della mostra risiede proprio qui: sfruttare la potenza iconografica di due modelli per creare un terzo mondo, ibrido, terreno di incontro per un legame impossibile e invece ora incredibilmente realizzato. Due icone della modernità-contemporaneità che diventano tutt’uno, non importa se supportate da un valore artistico o contenutistico, per generare qualcosa che di certo risulterà quantomeno gradevole e divertente alla fan base (immensa, se uniamo quella del pittore a quella dei Pokémon).