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Toccare l’essenza delle cose: Giorgio Morandi a Palazzo Reale

Giorgio Morandi fotografato da Herbert List, 1953, © International Center of Photography/Magnum Photos
Erano lombardi o vivevano a Milano i primi importanti collezionisti di Giorgio Morandi, come Vitali, Feroldi, Scheiwiller, Valdameri, De Angeli, Jesi, Jucker, Boschi Di Stefano, Vismara, parte delle cui raccolte sono state donate alla città. Milanese era anche la Galleria del Milione, che l’ha sostenuto e promosso nel mercato internazionale. Prima dei critici d’arte sono stati infatti i collezionisti milanesi a comprendere la qualità di Giorgio Morandi, contribuendo alla sua affermazione.

A Milano Morandi espone tre opere alla I Mostra del Novecento italiano, nel 1926, poi nel 1939, anno della sua partecipazione alla Quadriennale romana, in cui viene anche pubblicata da Hoepli-Schewiller, introdotto da Arnaldo Beccaria, la prima monografia del cosiddetto “pittore delle bottiglie” più ricercato. Nel 1990 Milano inaugura la mostra “Morandi e Milano”, in occasione del centenario della sua nascita, incentrata sui rapporti con la città di un protagonista della scena dell’arte e culturale del suo tempo, informatissimo su tutto e aperto a nuovi contatti internazionali.
Morandi non era né isolato né tanto meno ripetitivo, e lo riscopriamo visitando l’imperdibile mostra che entrerà nella storia, ospitata al Piano Nobile di Palazzo Reale “Morandi 1890-1964” ideata e curata da Maria Cristina Bandera, promossa da Comune di Milano prodotta da Palazzo Reale, Civita Mostre e Musei e 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE, in collaborazione con Settore Musei Civici Bologna /Museo Morandi, e realizzata con il sostegno di Unipol main sponsor, e Bper banca, sponsor di mostra. (fino 4 febbraio 2024)

Questa è tra le più importanti e complete mostre retrospettive del pittore, incisore e disegnatore bolognese confinato nel suo atelier di via Fondazza 36, accudito dalle sorelle, schivo e introspettivo, apparentemente svagato e sempre elegante, che non varcò mai i confini dell’Italia, fatta eccezione di alcuni viaggi in Svizzera nel 1956. Morandi dipingeva le cose ordinarie in modo straordinario: bottiglie, tazze, zuccheriere, vasetti di vetro, oggetti di latta di proporzioni diverse, a forma di tronco di cono rovesciato, imbuti innestati su forme cilindriche, opere considerate un investimento solido come l’oro nel mercato dell’arte, con un obiettivo: “quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”, come dichiara lo stesso Morandi.

Il percorso espositivo segue un criterio cronologico e azzarda accostamenti illuminanti sulla sua poetica incentrata sulla sua qualità pittorica e modernità, attraverso 120 opere che ripercorrono l’evoluzione artistica di Morandi dal 1916 al 1963, grazie a prestiti eccezionali da importanti istituzioni pubbliche e private nazionali ed estere. In 34 sale si attraversa anche la storia dell’arte della prima metà del Novecento, con le sue opere partendo dal periodo degli esordi che documentano il suo interesse per Cézanne, il cubismo e il futurismo, le sperimentazioni degli anni’20 , il periodo Metafisico. Stupisce la qualità delle sue incisioni, la prima è del 1912 e l’acquaforte, come Grande natura morta con lampada a destra (1928), un prodigio di abilità tecnica di cui è presente sia la lastra in rame sia gli otto stati, ovvero otto versioni con modifiche, le prime tre stampate in esemplare unico, pervenuti col lascito Vitali alla Raccolta Bertarelli di Milano.
Affascinano i dipinti degli anni ’30 (quando gli è assegnata per chiara fama la cattedra dell’incisione all’Accademia di Bologna, fino al 1956), caratterizzati da una ritrovata monumentalità, in cui si sfaldano le forme allungate, con ciotole, barattoli dalla forma cilindrica, scatole di latta a parallelepipedo ridipinte con ovali, quadrati o rettangoli, in cui spicca un imbuto rovesciato sopra un cilindro. Negli anni ’40 si avvia verso la semplificazione formale e dipinge le sue famose conchiglie dalle forme concave e convesse dal guscio screziato, ‘disegnate’ dalla luce, poi ci sono i vasi di fiori secchi, di carta e di seta e molti paesaggi spogliati di naturalismo di Roffeno e Grizzana, località abbarbicate lungo i pendii dell’Appennino, dove Morandi ha trascorso i mesi estivi.

Lasciano senza fiato le ultime due sale che raccolgono le opere degli anni conclusivi, quando dagli anni ’50, sperimenta sequenze e minime varianti compositive e l’acquarello: opere sempre più intangibili, mirando all’essenza della realtà negli ultimi anni della sua vita solitaria, ma affollata di tanti estimatori, collezionisti, amici e critici, in primis di Roberto Longhi, Cesare Brandi, Lamberto Vitali, Francesco Arcangeli, tanto per citarne alcuni che hanno compreso la sua incommensurabile originalità, grandezza e universale bellezza.
Morandi dipinge (s)oggetti in modo sublime; è insuperabile nelle acqueforti e acquerelli, pittore sensibile al ruolo della luce nella composizione degli oggetti nello spazio, che ‘truccava’ e sceglieva al mercatino del sabato alla Montagnola a Bologna. A Morandi più della realtà interessa la profondità, inscritta nelle piccole cose, come bottiglie, qualche paesaggio e vasi fiori dipinti in modo solenne: è un classico moderno che nella sua pittura contiene Giotto, Masaccio, Piero della Francesca, la luce di Vermeer e l’accordo compositivo di Chardin, sempre contemporaneo per il suo approccio percettivo di una realtà mentale, proiettato verso il futuro.
Osservati in serie e ordinate per sezioni, le opere di Morandi presentano un ordine geometrico dello spazio, dalle variabili combinatorie infinite, vicino all’approccio di Mondrian nell’intento di dipingere uno spazio astratto, di un pittore che ha dichiarato: “non vi è nulla di più astratto del reale”.

Morandi è “architetto” della visione più di quanto non si pensi, come ha colto Carlo Ludovico Ragghianti che nel 1934 scrive: “Tutto tende a una sintesi architettonica, tutto è concepito secondo un modo architettonicamente finito e organizzato”. È una tensione ‘palpabile’ in questa mostra, che se da una parte racconta il rapporto di Milano con Morandi, dall’altra suggerisce una nuova lettura più contemporanea, dagli intrecci narrativi sorprendenti, puntando sull’importanza delle variazioni di un medesimo tema.
In particolare nell’ultima produzione del 1964, Morandi raggiunge l’astrazione, mettendo in scena l’equilibrio formale di pieni e di vuoti, con oggetti depauperati da ogni funzione, quasi ‘attori’ in scena che si dispongono su piani diversi in maniera sempre nuova, in un succedersi di caraffe, lumi a petrolio, e altro ancora ripresi in una visione frontale, allineati come i mattoncini della Lego, trasformati in solidi elementi formali, segnando un campo visivo altrimenti impercettibile con il fine di evidenziare la profondità prospettica in una impaginazione raffinata dello spazio. Nelle sue ultime opere prevale l’ombra più della luce, pochi oggetti visti sotto punti di vista diversi, al limite dell’evanescenza, dove il motivo scompare e in cui s’intravede l’infinito.

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