La mostra Paraventi: Folding Screens from the 17th to 21st Centuries, a cura di Nicholas Cullinan, è in esposizione da Fondazione Prada a Milano, dal 26 ottobre 2023 al 22 febbraio 2024.
Situata negli spazi del Podium, la mostra espone più di settanta opere che, come si evince dal titolo, spaziano a livello temporale dai tradizionali paraventi orientali del 1600/1800 alle reinterpretazioni recenti di artisti e architetti quali Alvar Aalto, Le Corbusier, Pablo Picasso, Francis Bacon e Carla Accardi, arrivando alle realizzazioni site-specific di artisti invitati per l’occasione, come nel caso di Cao Fei.
L’allestimento, ideato dallo studio di architettura SANAA, si sostanzia in uno spazio continuo al piano superiore, dove è situato un percorso cronologico di circa una quarantina di paraventi; mentre al piano inferiore la mostra è composta da una labirintica installazione fatta di forme semicircolari che si dispiegano in un’alternanza di trasparenze e tendaggi. Le tende inserite nella struttura installativa rispondono spesso a motivi di conservazione delle opere; le parti trasparenti invece, richiamando la forma di paraventi, giocano sul paradosso di essere divisori che in realtà svelano. Sette aree tematiche in cui di divide: Regardings, East and West; Public/Private; Split Screens; Four Seasons: Space and Time, Figuration and Abstraction; Propaganda; World of Interiors; Parody/Paradox.
La mostra pone fin da subito il paravento come oggetto attraverso il quale inquadrare tematiche diverse, dal rapporto tra presente e passato a quello tra oriente e occidente, moltiplicandone interpretazioni e declinazioni.
Nella prima sezione si trova ad esempio il paravento Kurofune del XVIII secolo, particolarmente significativo in quanto simbolo del periodo di fertile commercio tra Giappone e Portogallo fin dal 1500. Kurofune significa infatti nave nera, termine con il quale i giapponesi identificavano le navi occidentali dipinte di nero, e il manufatto è definito nanban, ovvero caratteristico di quello stile artistico giapponese che prende abbrivio dal contatto con l’Europa.
Tra le prime opere in mostra troviamo anche l’installazione di Cao Fei, Screen Autobiography (Milan), composta da un green screen e da un blue screen posti a fare da sfondo ad alcuni thinkpad e smartphone sui quali scorrono sfondi animati. Fei propone dunque una evoluzione del concetto di “schermo” volta a stimolare una riflessione su come gli schermi digitali si impongono oggi in modo invasivo nell’esperienza di vita e globalizzata, influenzandone l’esperienza, da est a ovest.
Il rapporto tra oriente e occidente emerge poi nei suoi aspetti più spinosi nell’opera in time or space or state di Goshka Macuga, ovvero un separé / libreria a tre sezioni, con un design che ricorda gli scaffali delle biblioteche moderne. I libri che sono esposti trattano di economia, politica o storia e la loro disposizione racconta di coesistenze difficili: la prima sezione comprende, posti su due lati, gli uni di fronte agli altri, libri provenienti da Palestina e Israele, la seconda da Russia e Ucraina, la terza da Cina e Taiwan; a valicare i “confini” alcuni libri che sembrerebbero non essere al loro posto.
A raccontare un tipo di rapporto che spesso nella storia si è rivelato particolarmente complesso, quello tra belle arti e arti applicate, troviamo invece Painted Screen di Francis Bacon. È un paravento dalla forma classica con raffigurazioni dechirichiane realizzato dall’artista nel 1929 quando lavorava come decoratore d’interni a Parigi. Un passato che per un certo tempo Bacon, una volta entrato nel sistema dell’arte contemporanea, cerco di marginalizzare per evitare di essere collegato all’arte decorativa.
Nel solco della stessa tematica troviamo un paravento a pannelli ricamati del 1860-1889 progettato da William Morris e realizzato da Jane Morris ed Elizabeth Burden con le figure di Lucrezia, Ippolita ed Elena, le protagoniste del poema trecentesco La leggenda delle donne eccellenti di Geoffrey Chaucer. Evidente il revival medievale e l’estetica preraffaellita, con il pensiero che va subito al circolo inglese delle Arts and Crafts e all’idea morrisiana di opera d’arte totale, di equiparazione delle arti.
Sul rapporto tra cultura “alta” e “bassa” sono incentrate anche le opere di Franz West e di Laura Owens. Si trovano entrambe al piano superiore del Podium e, mentre la prima, Paravent del 2010, si pone a metà tra un paravento e una scultura, la seconda, Untitled del 2023, sostiene la dignità delle arti decorative attraverso delicati motivi di ispirazione naturale sui toni dell’azzurro e del rosa.
La mostra stessa propone la convivenza di opere di grandi artisti quali Pablo Picasso, Sol LeWitt, Renè Magritte, Man Ray, Yves Klein, Cy Twombly, Tony Cokes, e di opere dei grandi architetti e designer della storia come, ad esempio, il Panneau sèparatif insonorisè in lamine metalliche di Jean Prouvè del 1955, o il Three-Panel Screen art deco in pelle dorata, legno ebanizzato e dettagli in ottone di Josef Hoffman del 1899, o i paraventi in legno di Alvar Aalto e Charles e Ray Eames. Emblematico in questo senso è il paravento di Giacomo Balla, artista che sempre alternò nella sua ricerca futurista le tele a realizzazioni come i gilet ricamati o, appunto, il paravento esposto in mostra.
Ma gli innumerevoli rimandi di Paraventi: Folding Screens from the 17th to 21st Centuries non finiscono qui. Il paravento può essere pensato anche come elemento che separa, che sottrae allo sguardo altrui; può concedere intimità, e così aprirsi a ulteriori universi di senso. Grande spazio, dunque, aglu artisti che lavorano sulla tematica di genere o su riflessioni legate al concetto di identità.
Come Lisa Brice, in mostra con Untitled del 1922, un paravento che conduce l’osservatore in un universo completamente femminile, in uno studio artistico popolato da donne che ritraggono donne: lo sguardo maschile viene meno e si libera un universo di femminilità.
Anthea Hamilton all’opposto, con Shame Paravent del 2023, trasmette in modo molto materico – attraverso l’uso di oggetti come la corda, tradizionalmente collegata all’idea di autoflagellazione – un senso di insicurezza e di vergogna, oltre che un forte richiamo al corpo grazie alla gamma dei colori utilizzati.
Marlene Dumas ha dedicato la sua ricerca artistica proprio a rappresentare la complessità emotiva e psicologica dell’essere umano, della sua esistenza nella società. Dalle figure che dipinge emergono le più estreme manifestazioni dell’avventura umana, dalla vita alla morte, dalla violenza all’amore, fino alla sessualità. Le tematiche di identità e di genere che percorrono tutto il suo lavoro emergono in questo Paravent del 1984 attraverso la separazione delle figure maschili da quelle femminili, le prime da un lato, le seconde dall’altro.
Ma questo curioso oggetto che fa da perno a una mostra così faccettata e complessa rimanda anche a situazioni ironiche, bizzarre: è qui che si situano le opere di Elmgreen & Dragset, Isa Genzken, Mona Hatoum. La prima opera, Paravent del 2008, gioca sul rapporto tra pubblico e privato: il confine è fallato, l’intimità è disattesa e il visitatore della mostra si fa voyeur. Può percepire la presenza del proprietario del paravento evocata da due paia di jeans lasciati in giro, guardare attraverso due buchi sulla superficie del separè, o addirittura girarci attorno scoprendo un rotolo di carta igienica appeso sul retro.
Anche l’opera di Genzken si intitola Paravent e anche in questo caso la separazione viene meno. Paradosso: del paravento è rimasto solo un profilo in cemento, piuttosto che separare un ambiente inquadra una porzione di spazio.
Sull’onda dell’ironia si pone anche Grater Divide del 2002. In questo caso Hatoum propone come divisorio una gigantesca grattugia, un oggetto surreale, quasi surrealista, presenza straniante che anch’essa, tutta bucherellata, fallisce nell’intento divisorio.