Dalle istituzioni pubbliche – il MASP e il MAM – alle gallerie private – da Galatea e Vermelho a Luciana Brito – in Brasile la produzione indigena entra come un’onda nei programmi, nelle collezioni e nell’economia dell’arte: probabile antipasto della prossima Biennale di Venezia?
Sono innumerevoli le manifestazioni promosse da musei, gallerie, fondazioni, istituti e anche spazi indipendenti che, in ogni angolo del mondo, negli ultimi anni, hanno dato una voce alle pratiche artistiche native, ovvero all’arte indigena. E il Brasile, chiaramente, è il Paese capofila di questa legittimazione culturale, non fosse altro perché nel suo territorio vivono qualcosa come 266 comunità, le cui popolazioni sommate contano circa un milione di individui che parlano più di 150 lingue differenti e che rappresentano lo 0,5 % della popolazione totale della nazione.
Indigeno sarà il prossimo padiglione brasiliano alla Biennale di Venezia, affidato all’artista e ricercatrice Glicéria Tupinambá, artivista che si è occupata anche di recuperare il celeberrimo manto Tupinambá – nella collezione del Nacionalmuseet di Copenhagen dal 1969 – ridandolo al Brasile: la restituzione è prevista proprio per l’inizio del 2024 e l’oggetto sacro, realizzato a cavallo tra il XVI e XVII secolo andrà al Museu Nacional di Rio de Janeiro, la cui riapertura dopo il catastrofico incendio del 2018 è prevista per il 2026. A cura degli artisti indigeni Arissana Pataxó, Denilson Baniwa e Gustavo Caboco Wapichana, il padiglione veneziano sarà ribattezzato Hãhãwpuá, nome utilizzato dalla popolazione Pataxó per riferirsi al territorio brasiliano antecedente alla colonizzazione, che già aveva avuto decine di nomi differenti.
Il titolo della mostra, che affronterà i temi della marginalizzazione, dell’espropriazione delle terre native e delle violenze perpetrate nei confronti dei popoli indigeni, sarà “Ka’a Pûera: Nós Somos Pássaros que Andam”, Siamo uccelli che camminano.
Le “Histórias Indígenas” al MASP
In queste settimane, in una ideale preparazione ai temi forti di Venezia 2024 legati al Brasile, la vicenda della costruzione di un manto è in scena al Museo di arte di São Paulo, nel video Quando o manto fala e o que o manto diz, realizzato proprio da Glicéria Tupinambá con Alexandre Mortagua tra il 2021 e il 2022 nella Serra do Padeiro, area interna nello stato di Bahia. Accanto a lui, fino alla fine di febbraio 2024, ci sono le “Histórias Indígenas”, una grande mostra sui due livelli che raccoglie diverse prospettive sulla produzione artistica dei popoli nativi (e dei relativi artisti) delle Americhe (del Sud e del Nord), dell’Australia e dell’Oceania e anche dei Sami del nord Europa.
La mostra è curata da Edson Kayapó, Kássia Borges Karajá e Renata Tupinambá, vicecuratori della sezione dell’Arte Indigena del MASP con una serie di curatori ospiti tra cui Abraham Cruzvillegas, che si sono divisi sugli otto nuclei che comprendono la collettiva: “Relazioni che nutrono: famiglia, comunità, terra”, dedicata all’arte indigena del Canada; “La costruzione dell’io”, dedicata alla produzione messicana; “Storie di pitture nel deserto”, forse una delle più interessanti in scena, tutta dedicata all’arte aborigena australiana; “Pachakuti: il mondo delle teste verso il basso”, in cui è in scena la produzione di artisti nativi del Perù; “Rompendo la rappresentazione”, dedicata ai Maori della Nuova Zelanda; “Tempo non Tempo”, per il Brasile; “Várveš: nascosti del giorno”, per i Sami norvegesi; e per finire un nucleo tematico intitolato “Attivismo” la cui curatela è stata generale e che affronta le dispute per il riconoscimento e la tutela delle terre e dei saperi indigeni. L’ideale partenza, qui, è data dal discorso di Ailton Krenak all’Assemblea Costituente a Brasilia nel 1987, dove l’attivista e scrittore, in una vera e propria performance, mentre spiegava come la lotta per i diritti indigeni stesse retrocedendo anziché aiutando le popolazioni native, si dipinse il volto di nero con tinta di jenipapo.
Ailton Krenak, Hiromi Nagakura e l’Amazzonia nell’obiettivo
Nato nel 1953 in Minas Gerais, nella regione del Rio Doce, Ailton Krenak fu anche il “mentore” del reporter giapponese Hiromi Nagakura, del quale all’Istituto Tomie Ohtake (un’altra marca architettonica di San Paolo, nel quartiere Pinheiros) si ripercorrono per immagini i viaggi che il duo (sempre in compagnia della produttrice e interprete Eliza Otsuka) realizzò in Brasile nell’arco di cinque anni, dal ’93 al ’98, mostrando le aree più intoccate e i relativi abitanti di alcuni stati tra cui Acre, Roraima, Mato Grosso, Maranhão, São Paulo e Amazonas. “Hiromi Nagakura até a Amazônia com Ailton Krenak” è un’esposizione di immagini splendide, dai contorni chiaramente antropologici, a cui si somma un’altra piccola esposizione fotografica – questa volta al MAM, Museo di Arte Moderna di San Paolo – di Claudia Andujar: “Sonhos Yanomami”. Un’occasione per scoprire, per chi ancora non la conoscesse, la fotografa svizzera di nascita che a partire dai primi anni ’70 divenne una delle più attente testimoni della vita e delle tragedie occorse alla popolazione Yanomami, sopravvissuta ai cercatori d’oro e alle disattenzioni dello stato federale.
Arte indigena in galleria
Ma torniamo al MASP, per continuare a tessere le linee con l’onda indigena che abbraccia la città: tra gli artisti presentati troviamo Carmézia Emiliano (Roraima, 1960) una delle pioniere dell’arte indigena brasiliana che dipinge dagli anni ’90 la vita del popolo Macuxi, abitanti delle terre al confine tra Brasile, Venezuela e Guiana. Carmézia Emiliano, però, è anche una delle protagoniste della bella mostra “No fim da madrugada”, alla Galeria Vermelho, con le pitture intitolate Minha gente, dove quasi l’intero campo visivo è occupato da una nuvola di farfalle che sorvolano la stretta terra del villaggio. “Cosa possiamo ancora imparare del concetto di “gente”, ovvero creature, che uniscono esseri viventi e ambiente?”, si chiede la curatrice Lisette Lagnado.
Presente anche alla 35ma Biennale di San Paolo, Carmézia Emiliano si dà come una delle artiste favorite per “Stranieri Ovunque” di Adriano Pedrosa, insieme a Kassia Borges Karaja, presente in “Histórias Indígenas” – come abbiamo scritto – in qualità di curatrice.
Nella collettiva del MASP c’è anche Aislan Pankararu, nato a Petrolândia (Pernambuco) nel 1990 e appartenente al gruppo Pankararu, il cui lavoro nasce dal ricordo delle sue origini, evocando la ricchezza visiva, simbolica, la lotta e la resistenza del suo popolo. Aislan, però (già presente nella collezione di Bernando Paz, creatore dell’Instituto Inhotim), è anche alla Galeria Galatea con una personale di grande impatto, “Mitocôndria Ancestral”, curata ancora da Lisette Lagnado, che si apre con la splendida installazione Feixes de ondas germinantes (Fasci di onde germinanti) composta da un intreccio di corde di agave e piccole sculture tonde in ceramica a ricordare campanelli, in un universo che – congiuntamente alle pitture in mostra – porta immediatamente agli scenari terrosi della caatinga, l’unico bioma arido prettamente brasiliano che abbraccia vari stati, dal Nord Est al Centro Sud, oggi minacciato non solo da un progressivo abbandono delle popolazioni, ma anche dall’arrivo delle economie fintamente green, eolico in primis, promosso da aziende che – pensa un po’ – in Brasile producono energia per la Francia…
Poco lontano da Galatea, nell’incredibile sede di Luciana Brito (la casa che ospita la galleria fu progettata dall’architetto Rino Levi) c’è un’altra mostra che parla di ancestralità e percorsi indigeni dell’America Latina: è “Primavera Silenciosa”, a cura di Alexia Tala.
La poetiche degli artisti in mostra celebrano la pluralità delle visioni e il rapporto con la natura, mantenendo aperto uno sguardo critico sull’attualità e allo stesso tempo stimolando un rapporto più sostenibile con l’ambiente che, a onor del vero, non sarebbe di certo attuale ma, appunto, ancestrale. Belle le pitture del guatemalteco Diego Isaías Hernandez, e ancora più profonde – probabilmente per il loro compenetrarsi con gli spazi della galleria – alcune opere in lana di Antonio Pichillá, a sua volta dal Guatemala e legato alla tradizione tessile Maya.
L’eredità di Emanoel Araujo al MAM
Chiudiamo questo ciclo di marea indigena di nuovo al MAM dove oltre agli scatti di Andujar c’è una mostra, nella sala Paulo Figuereido, che raccoglie l’eredità di un altro grande pensatore e “attualizzatore” delle minoranze: Emanoel Araujo. Scultore, pittore, scenografo, curatore e pensatore, ideatore del Museo Afro-Brasileiro, nel 1988 Araujo aveva organizzato – proprio al Museo di Arte Moderna – la mostra “A Mão Afro-Brasileira – Significado da contribuição artística e histórica”, in occasione dei cent’anni dell’abolizione della schiavitù e della nuova costituzione brasiliana; una mostra che dava voce all’ostinata lotta di tutti coloro che sentivano la necessità di costruire una società che fosse più giusta, egualitaria e, chiaramente, democratica. Oggi, “Mãos: 35 anos da Mão Afro-Brasileira” traccia un percorso che tiene conto del tempo passato da allora e che, come allora, riafferma come l’educazione sia uno dei passi per eradicare il razzismo strutturale che ancora appartiene al quotidiano di milioni di cittadini nel mondo intero.
Aline Bispo, lo stesso Araujo, Heitor dos Prazeres, Mestre Didi, Paulo Nazareth, Peter de Brito, Rommulo Vieira Conceição, Rosana Paulino, Rubem Valentim, Sérgio Adriano H, Sidney Amaral, Sonia Gomes, sono solo alcuni degli artisti che qui si incontrano – e che già abbiamo incontrato tanto alla Biennale quanto in “Dos Brasis” – che ancora una volta pongono l’accento sulla necessità di eliminare la politica selettiva determinata dal colore della pelle o dall’origine geografica, dalla xenofobia o dal pregiudizio, costruendo un mondo della cultura dove anche le mani afro e quelle indigene vengano riconosciute nella loro complessità e importanza poetica.