La qualità non è quella di Basilea, però dalla fiera vedi l’oceano. Non c’è la storia di Parigi e nemmeno la detassazione di Hong Kong, però il cielo al tramonto è color pastello e gli alberi di natale sono le palme con le lucine tortili ai tronchi. Diverse prospettive, differenti orizzonti. I gradi, ultimamente, sono 25/30 anche in terra elvetica a giugno, dove tutto 53 anni fa è cominciato e prosegue senza paragoni con altre versioni più o meno esotiche e asiatiche. Qua, però, oltre i 75/80 farhenheit c’è il mare, là c’è il Reno, a ottobre la Senna, e non ci fai il bagno. A Miami non fai ridere se giri per gli stand in infradito e bermuda, a Basilea e al Grand Palais sì, giustamente. Altri mondi, connessi dal filo d’oro dell’arte, e dal suo sistema e mercato. Che in Svizzera e Francia è cosa nobile e sacra e si prende molto seriamente. Qua tutto il contrario, più palme, paste, party e paillette. L’arte a South Beach è la pillola (zucchero, medicina, molly, placebo) dorata, che tutto avvolge e abbaglia. La radice, matrice, comune comunque è la stessa, l’unica cosa che conta: le compravendite e gli scambi, sempre di più lodevolmente corredati da prove di impegno: per l’ambiente, i diritti, il sociale, la sostenibilità in generale.
L’arte a Miami è un termine vago che fa rima con fun, fab, rad, wow, cool, crazy, colorato. La parola è praticamente una scusa, un modo per ammantare in un colpo solo lusso, fashion, food, design, musica. Piaccia o meno, la Miami Art Week (4-10 dicembre) è la sintesi glam di tutto ciò. Contaminazione, ibridazione, esagerazione a livelli estremi. D’altronde, qua, è liberi tutti. Tutto è visto e vissuto all’eccesso. Glitter, lustrini, star, starlette, piscine, champagne, cene e feste fino all’alba sulla spiaggia o sui rooftop dei grattacieli, a tutte le ore. This is Miami Week è l’eccitante mantra motivazionale che si riverbera in ogni dove. Qui tutto è possibile, da Ocean Drive ad Allapattah. L’unico ostacolo è il traffico, infinito, soprattutto quando si vuole scavallare la Baia in qualsiasi senso di direzione, e con qualsiasi mezzo. A piedi, invece, cinque minuti dalla spiaggia e sei al Convention Center, centro gravitazionale pulsante per cinque giorni, (6-10 dicembre), la casa di Art Basel, la dimora della “reina”, visto che qui la lingua è rigorosamente spanglish. Le scaglie lucide e bianchissime della pelle-onda che avvolge la struttura, rigenerata nel 2020 da Fentress Architect, rimbalzano e quasi specchiano con le linee Art Déco degli storici hotel sulla Collins. Sagamore, Delano, National, Ritz-Carlton, Shelborne, Loews: candide meraviglie architettoniche anni Trenta che guardano l’Atlantico, e in questi giorni ospitano i galleristi più importanti. E mentre il sole, spesso timido velato, abbaglia il Centro Congressi, fuori dagli ingressi vetrati sfilano le macchine di servizio, BMW rigorosamente elettriche (le Audi sono della sorellina di fronte Design Miami), facendo spola ai collezionisti giunti in città da tutto il mondo. Dentro, sul fuso orario della East Coast (i quadranti alle pareti segnano tutti gli orari delle città targate “Art Basel”) è giunta l’ora. L’ora del gran circo dell’arte contemporanea. Quella della regina delle fiere d’arte nella sua edizione più glamour: Art Basel Miami a South Beach. The Big One is back titolano a caratteri cubitali i quotidiani locali, è tornata e si è riportata con sé la settimana dell’arte più folle del globo (e pure il suo videogioco più iconico, mercoledì 5 è stato infatti presentato il trailer di GTA VI, che fu “Vice City” nel 2002 e tornerà a far fuori la gente nel 2025).
La fiera ha alzato il sipario sulla sua versione americana con doppia tornata di preview gli scorsi 6 e 7 dicembre, prima dell’apertura al pubblico da venerdì 8 a domenica 10, chiusura con 79 mila presenze (più o meno come Basilea, il doppio di Parigi). Edizione numero ventuno per la manifestazione leader nelle Americhe targata MCH Group (la rivale Endeavour, che possiede il marchio delle fiere Frieze, ha acquisito le due top Armory Show di New York e Expo di Chicago). 277 le gallerie provenienti da tutto il mondo, 25 i nuovi ingressi, un solo obiettivo: mostrare la migliore arte contemporanea sulla piazza. E, soprattutto, venderla. Seppur con più lentezza e apprensione rispetto al solito, data la crisi globale che si riflette anche sul settore, la “missione” è stata un successo. In tempi fragili come quelli in cui viviamo (vedere per credere le aste newyorkesi di appena un mese fa che hanno ridotto di oltre il 20% il fatturato rispetto al 2022), Miami ha risposto positivamente, e già si proietta nel 2024 con nuovi investimenti e un upgrade cruciale: l’arrivo della nuova direttrice fra meno di un mese, l’ex dealer e gallerista Bridget Finn (Vincenzo De Bellis rimane il supervisore delle quattro piattaforme espositive della fiera, mentre Noah Horowitz ne è il CEO globale).
Tornando in fiera, l’offerta si mantiene di altissimo livello, sia come curatela degli stand che come proposta alle pareti. Ottima la scelta di aggiornare il layout dispositivo interno, strutturando le sezioni attorno a cinque piazze dove sedersi e pasteggiare a ostriche e champagne e/o riposarsi (per gli italiani fortunatamente c’è Rosetta Bakery). Confermate le sezioni degli scorsi anni. Oltre la classica Main (Section), spazio (enorme) a Meridians, dedicato alle opere monumentali, con 19 progetti; Kabinett, con 30 gallerie per 28 installazioni curate, situate all’interno dei loro stand; Positions, giovani gallerie per voci emergenti; Nova, con opere inedite prodotte negli ultimi tre anni; Survey, alla riscoperta di talenti del Novecento dimenticati; Conversations, invece, è il programma di live talk, quest’anno con un focus sull’America Latina. In totale sono quattromila gli artisti presentati nella vetrina di Art Basel, dieci le gallerie italiane, che menzioniamo in ordine alfabetico: Alfonso Artiaco, Cardi, Continua, Massimo De Carlo, Kaufmann Repetto, Mazzoleni, Franco Noero, Lia Rumma, Christian Stein, Tornabuoni. L’unica macro differenza con le ultime edizioni è stata la mancanza di un’opera simbolo, come furono la Banana (Comedian) di Cattelan nel 2019 o il bancomat di MSCHF nel 2022 che classificava i miliardari che si avvicendavano al mezzo. Coi tempi che corrono, forse, meglio non esporsi.
Focus, necessario, sulle vendite. 20 milioni di dollari la cifra più alta pagata in questi giorni (il Phillip Guston di Hauser & Wirth battuto nelle prime ore di apertura, dal titolo Painter at Night, del 1979). 45 milioni invece l’opera più cara della fiera, il primo Black Painting di Frank Stella (ne esistono solo 24), offerto da Yares Art non andato venduto. Realizzato nel 1958, Delta, sarebbe potuto diventare il top price assoluto dell’artista 87enne americano, il record d’asta è fermo a 28,1 milioni. Sempre di Stella, da segnalare da Lèvy Gorvy Dayan un altro capolavoro a fasce arancio, viola, verde dipinto con vernice fluorescente. Titolo: BAFT. Anno: 1965. Valore: 5,5 milioni. La nostra top ten dei pezzi più pregiati visti tra stand e corridoi prosegue con alcuni capisaldi del Novecento. Oltre i già citati Guston e Stella, menzione d’obbligo a un lavoro storico di Robert Ryman (Untitled, 1961) da David Zwirner (richiesta: 15 milioni di dollari). Sempre dal gallerista di Colonia, è stata acquisita per 9 milioni The Schoolboys (1986-1987), preziosa tela della pittrice sudafricana Marlene Dumas. Seguono, in ordine sparso, lavori di prima fascia di Andy Warhol (Dollar Sign, 1981, tra i più grandi mai realizzati) da Van De Weghe (9,7 milioni); Kandinsky (Arrow Toward the Circle, 1930, sui toni del rosa del verde del grigio) di Helly Nahmad (7 milioni); Jeff Koons (Cracked Egg, Yellow, 1994-2006, dall’ego luccicante) da Gagosian (5,5 milioni); e Lee Krasner, Twelve Hour Crossing (1971-81) portato da Mnuchin (4,8 milioni). Notevoli, per chiudere il cerchio delle migliori presenze, un’inedita Duck di Basquiat su fondo verde lisergico (6,5 milioni, offerto da Acquavella); un dittico di Joan Mitchell, dominato da spazzolate di bianco e bruno, portato da Gray (Canada, prezzo: 4,4 milioni); una delle storiche tirature de Le Violon d’Ingres di Man Ray del 1924 (la galleria è Larkin Erdmanm, la cifra da sborsare è 750 mila dollari); e una bellissima tela frastagliata bianco-nera di Emilio Vedova (Del ciclo della natura, 1958, ceduta per 850 mila dollari da Thaddaeus Ropac). Qua tutte le foto della top 20 vista in fiera.
Capitolo contemporanei: venduti subito (350 mila) gli oltre tre metri di olio su lino (Bacchanalia) delle 33enne rococò Flora Yukhnovich da Hauser; i fuochi d’olio e artificio di 23:22 di Lucy Bull (altra 33enne) da David Kordansky (250 mila); il Ritratto di Yuji Adeniyi-Jones della star Kehinde Wiley da Sean Kelly (700 mila); e gli Infinity-Nets by Gold di Yayoi Kusama: un quadrato di due metri pervaso da tutta la sua ossessione (4,8 milioni da Edward Tyler Nahem). Monumentali il collage Tea Time in New Haven, 2013 della meravigliosa Njideka Akunyili Crosby (4,85 milioni da Victoria Miro) e il Christian Retreat di Eric Fischl, in aria da piscina con spruzzo e lettino, da Skarstedt (850 mila dollari). Raffinatissimi i due solo-show di Galerie Minsky e Weinstein, dedicato alla surrealista italo-argentina Leonor Fini, e di Polka Galerie sul fotografo modenese Franco Fontana, dedicate agli orizzonti di Adriatico e Appennino (ne sono state vendute tre nel range 8-10 mila dollari). Numerose le compravendite a sette cifre (da Robert Rauschenberg a Tracey Emin, da Alex Katz e Alice Neel), moltissime quelle a sei (da George Condo a Keith Haring, da Lynda Benglis a Mickalene Thomas). Con Guston, sul podio delle vendite c’è una fioritura intrecciata dell’ultimo De Kooning (Untitled VII, 1986 – 8 milioni) da Skarstedt e una delicata gouache di Magritte portata da Vedovi, ceduta per 2 milioni.
Art Basel ha fatto centro, e non era per nulla scontato. Tangibile l’ansia nelle prime battute martedì durante la giornata di preview. Un’ansia che piano piano si è stemperata con il pellegrinaggio dei mega collezionisti da tutta America. Non è un caso se il traffico di aerei privati durante l’Art Week a Miami è secondo solo al Super Bowl. I miliardari, in primis nordamericani, hanno risposto e hanno raggiunto la fiera in massa. Avvistate svariate celebrities giunte a Biscayne Bay con yacht ed elicotteri, tra i più fotografati l’habitué Leonardo Di Caprio, Venus Williams (è sua una delle cene più famose con Pace Gallery, l’altra è quella di White Cube alla Soho House Miami Beach), Cindy Crawford, Pierce Brosnan, Peter Marino, Kanye West, Michael Ballack e Jared Leto. Tutti, tra l’altro, grandi collezionisti di arte contemporanea. Non solo States e Canada. La Florida è il buen retiro dei miliardari anche del Centro e Sud America, grazie alle alte temperature, e soprattutto alle basse aliquote fiscali – lo Stato non impone tasse su plusvalenze, eredità e proprietà. Miami è la porta e la sintesi di tutto il continente, non solo dal punto di vista geografico e logistico. La città e la comunità intera sono in continua crescita ed espansione. Gli ultimi a trasferirsi sulle coste di Miami Beach sono stati Shakira, Jeff Bezos, Kenneth C. Griffin e Lionel Messi.
Ma la fiera non finisce qui. Art Basel, da quando è arrivata in città nel 2002 (originariamente prevista per il 2001, fu rinviata a causa della tragedia dell’11 settembre) ha trascinato con sé tutto il gran luna park dell’arte contemporanea, nel bene e nel male. Un lungo strascico di paillette e “contemporary” per l’ultimo appuntamento stagionale dell’art system globale (si ricomincia poi a Ginevra, artgèneve 25-28 gennaio, e a Bruxelles, Brafa 28 gennaio-4 febbraio). Partiamo dalla fiere, satelliti e collaterali. Sono una ventina quelle che popolano Miami, da Lummus Park a Midtown, ognuna specializzata in un settore specifico, dall’urban art alla fotografia, dall’arte afro e latinoamericana agli works on paper. Sono troppe, citiamo solo quelle degne di nota. Martedì hanno dato il via alle danze le due rassegne sulla spiaggia: Scope Art Fair, con al suo interno la prima edizione di photo basel Miami, e soprattutto Untitled, su Ocean Drive: rassegna inclusiva dedicata all’arte ultra contemporanea – purtroppo il giudizio su quest’ultima si sta “Scopeizzando” concedendosi troppo al trash di casa. Discorso analogo per Art Miami che subisce il fascino pop-commerciale di Context. Nelle stesse ore, sulla terraferma, prendeva il via la fiera più attesa dopo Basel: NADA: la New Art Dealer Alliance ha visto sfilare negli Ice Palace Studio oltre 150 gallerie e organizzazioni non profit giunte qua da più di cinquanta città. Ottimi i feedback e le vendite, buona la qualità nel complesso. Di fronte al Convention Center di Art Basel, invece, è andata in scena la prima citata sorella Design Miami: “l’autorità globale per il design da collezione”, diretta quest’anno da Anna Carnick. Art Miami, con la gemella kitsch Context, ha virato invece sulla Baia di Biscayne, e rimane l’unica manifestazione legata (anche) al Novecento. Chiude il cerchio delle fiere più qualitativamente amabili INK Miami, ospitata nello storico Hotel Dorchester sulla Collins, e dedita alle opere d’arte su carta. Extra fiera che si implementano con la nuova sinergia targata Tribeca Festival. Proprio di fronte alle scaglie bianco scintillanti del Centro Congressi si sono tenute quattro serate-evento: concerti e incontri con gli artisti al Botanical Garden. Tra gli ospiti, la polistrumentista Eartheater; Natasha Diggs; gli autori di Max Original Rap Sh!t e la compositrice britannica Actress. Sublimi le cosiddette “vibes”, degne performance di una kermesse come Art Basel. Ultima, ma non meno importante, sperimentazione introdotta dalla fiera: Access. Una piattaforma di vendita online per le gallerie, dove ai collezionisti verrà chiesto di donare un ulteriore 10% (o più) del prezzo dell’opera acquistata alla Croce Rossa o alla Miami Foundation. Somma totale raccolta: 100 mila dollari.
Scenario mostre e musei. Lunedì mattina (4 dicembre) sono state inaugurate la “casa” dei mega collezionisti De la Cruz a Key Biscayne, nonché la loro relativa Collection, entrambe nel Design District (mostra: House in Motion/New Perspectives), a due passi dal santuario dei graffiti, Wynwood – vedere per credere i chilometri di murales e per chi vuole pagare i più patinati, troppo, Wynwood Walls e Museum of Graffiti, dominati entrambi dal mega murales che celebra l’arrivo di Messi all’Internacional de Miami. Qui, dove la gentrificazione trasuda da ogni block. Qui, dove “design” è sinonimo di lusso e moda, LVMH ha inaugurato la sua Culture House al Moore Building, Perrotin una temporary miscellanea con gli artisti del suo roster (JR, Arsham, Pivi, Hewitt) al M Building, Cartier una esperienza immersiva dedicata al tempo (Time Unlimited) e BMW una installazione in collaborazione con Alex Israel. Immancabili gli old school dealer Larry Gagosian e Jeffrey Deitch. I due mercanti ospitano la tradizionale mostra pop-up (Forms) in un magazzino del Distretto. Lì a fianco si staglia, oramai da sei anni, l’Institute of Contemporary Art – ICA. L’esposizione “speciale” di quest’anno è Charles Gaines: 1992-2023 (primo e secondo piano), ma non è da meno il piano terra con Sasha Gordon. Un quartiere più in là, ad Allapattah, il Rubell Museum apre le mostre dei suoi artisti in residenza: Basil Kincaid e Alejandro Piñeiro Bello. A fianco, sempre sul decumano industriale -la 23esima- sorgono Espacio 23 e Superblue Miami. Quest’ultima sugli scudi grazie al progetto realizzato da JR, The Chronicles of Miami: un nuovo enorme doppio murales esposto sia sulla facciata esterno del museo che su Jungle Plaza al Design District. La Margulies Collection, tempio dell’Arte Povera, passa da una collettiva di scultura novecentesca al solo show di Mimmo Paladino: Painting and Sculpture. Conferme, non meno importanti, e novità: Faena Art ospita Sebastian Errazuriz che per Spaces of Influence: Shaping Community in the Modern World ha realizzato un labirinto sulla spiaggia a Mid Beach. Alcova Milano fa la sua “prima” a Miami nelle sale del Selina Gold Dust con il suo design sperimentale e indipendente. Al Perez Museum (PAMM) spazio a Gary Simmons: Public Enemy; Joan Didion: What She Means e alla blockbuster Yayoi Kusama: Love is Calling (già in presenza stabile alla Rubell). E ancora, impossibile non passare al MOCA a North Miami o allo Wolfsonian su Washington Avenue e alle grandi fondazioni, progetti e collezioni che costellano Avenue e Boulevard di tutta la città: Maldonado (con la iper curata In Time The Rigor of Geometric Shapes), Spinello, Craig Robins, Locust, Marquez, Historic Hampton House e Making Miami. Chiudiamo il tour con il primo dei musei cittadini, The Bass, che nel 2024 compirà sessant’anni. L’istituzione ha puntato dritto sull’artista di casa: Hernan Bas, 46 anni, nato a Miami da genitori cubani, casa-studio in Little Havana. La mostra, The Conceptualists, è stata la più attesa della settimana: la tela diventa strumento d’indagine degli spazi di libertà del mondo queer. Ricapitolando: decine di mostre, venti fiere, centinaia di eventi, migliaia di artisti, gallerie, professionisti. Sette giorni di arte miscelata a moda, design, lusso, amalgamata dall’aria di sale del mare. I lustrini dei party si stemperano nelle luci pastello del cielo.