La Sharjah Art Foundation fulcro di una politica artistico-culturale aperta alle dinamiche globali ma integrata alla storia e alla società dell’Emirato. Prima puntata
Nell’ormai lanciata corsa degli Emirati Arabi a guadagnarsi un posto in prima fila (anche) nel mondo dell’arte, Sharjah si ritaglia un ruolo speciale. I “giganti” finanziari Abu Dhabi e Dubai si proiettano direttamente dentro le più frenetiche dinamiche globali. Offrendo ponti d’oro per i grandi musei, ed ospitando fiere d’arte frequentate dalle “blue chips galleries”. Forti di capacità economiche pressoché illimitate, derivate qui da sconfinate riserve petrolifere, lì dai portentosi gangli della finanza internazionale. L’approccio di Sharjah, che pure dista solo pochi chilometri da Dubai, è diverso: più umano, più umanistico, più integrato alla storia e alla società dell’Emirato.
Tutto parte dalla lungimirante prospettiva dell’Emiro Sultan III bin Muhammad al-Qasimi. Lungi dal chiudersi nei dorati palazzi del potere, lui dal 1999 è docente di storia moderna del Golfo presso l’Università di Sharjah, e dal 2008 anche all’Università del Cairo. Autore di diversi libri e opere teatrali. E a gestire le questioni culturali ha messo la figlia Hoor al-Qasimi, che guida e dirige la Sharjah Art Foundation. Insieme hanno individuato negli assett culturali, e conseguentemente turistici, una chiave per i futuri sviluppi socioeconomici del paese. Ma sempre mettendo davanti a questi il benessere del popolo Sharjawi, e le opportunità da offrire alla comunità creativa locale.
Nuove commissioni
Ad “aprire le danze” fu nel 1993 la Biennale di Sharjah, che dal febbraio al giugno scorsi ha celebrato la sua quindicesima edizione, ormai saldamente inserita fra gli eventi di prestigio a livello globale. Nel 2009 è nata appunto la Sharjah Art Foundation, col compito di coordinare la stessa biennale, nel contesto dei tanti musei, teatri ed eventi artistici presenti sulla scena dell’emirato. Sempre in dialogo con la comunità artistica internazionale, con eventi gratuiti e aperti al pubblico. Annualmente organizza il March Meeting, incontro con critici e artisti internazionali, assegnando borse di studio e residenze per artisti, curatori e promotori culturali. Con location spesso ospitate in edifici storici riconvertiti come affascinanti spazi espositivi e centri comunitari.
Fra le mission della fondazione c’è la commissione di nuove opere spesso site specific a importanti artisti della scena internazionale. Che in molti casi, dopo le relative mostre, vanno ad arricchire la collezione permanente ospitata nel quartier generale di Al Mureijah. È il caso del progetto In Plaited Time / Deep Water, che vede protagoniste due star come Lubaina Himid, vincitore del Turner Prize nel 2017, e Magda Stawarska. La mostra, con diverse opere nate dalla collaborazione delle due artiste, occupa – fino al 28 gennaio 2024 – tre padiglioni dell’area. Vero centro propulsivo delle dinamiche artistiche della Capitale. Mentre altri tre spazi accolgono l’esposizione To Be Free!, dell’artista sudafricano Gavin Jantjes.
Pittura, installazione, scrittura, ambienti sonori
Una premessa di impone: sarebbe sbagliato guardare a quanto si muove sulla scena artistica mediorientale – ai creativi autoctoni, o a ciò che viene richiesto agli ospiti – con uno sguardo “occidentale”. Si rischierebbe erroneamente di interpretare una certa tendenza “didattica”, un latente sentore di letterarietà e il non infrequente affiorare di rimandi alla cultura tradizionale nei canali della retorica. Ma quella che a noi può apparire retorica, deve essere vista come un percorso per emancipare la cultura e l’arte emiratina da stilemi tradizionali ormai vetusti verso una modernità aperta. “Non sono più così convinto che la retorica rappresenti solo una scorciatoia ipocrita e un espediente propagandistico”, scriveva efficacemente nei giorni scorsi Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. “Come certe medicine, la prima reazione che la retorica provoca è il rigetto. Poi, però, si insinua lentamente dentro le persone e prepara il terreno, cambiando il modo di pensare, e di agire, di comunità intere”.
Comunità intere: quelle alle quali hanno guardato Himid e Stawarska nelle quattro nuove commissioni presentate, strettamente legate alle architetture, al mare e agli stimoli sonori di Sharjah. Come in Zanzibar (1998–2023), una poetica serie di dipinti dove la pratica di Himid – tra pittura, installazione e scrittura – incontra l’ambiente sonoro appositamente creato da Stawarska. Una serie di grandi teleri che scendono dall’alto, fra i quali i visitatori si muovono per sperimentare le memorie di viaggio che hanno ispirato l’autore. “Non ho mai perso la voglia di fare un lavoro animato dalle persone”, scrive l’artista. “O da persone che lo sperimentano, come in un set teatrale”.
Pezzi di una storia intima
L’esplorazione del linguaggio e della memoria trova completezza nella nuova installazione multimediale Secret Study (2023), creata da Himid appositamente per la mostra. Un archivio di oggetti provenienti dalla collezione privata dell’artista, insieme a cimeli e ricordi personali, che si avventura nel suo mondo interiore, recuperando pezzi di una storia intima che svela le matrici “genetiche” delle stesse opere. “Le artiste usano pittura, poesia, scrittura e suono per svelare le proprie storie e ricordi, così come quelli custoditi a Sharjah”, dichiara il curatore Omar Kholeif.