Tra i tanti personaggi fuori dal canone, che la storia ha dimenticato, o quanto meno rimosso per comodità, Cecco d’Ascoli è uno tra i più complessi e fascinosi. Nato ad Ancarano nel 1269, Cecco fu filosofo, scienziato, astronomo e anche poeta, insegnò all’Alma Mater di Bologna, criticò Dante, e finì per attrarre le antipatie della Chiesa per le sue posizioni anticonvenzionali. Il finale è dei più banali (per quei tempi): accusato di stregoneria, ça va sans dire, una bella pira mise fine alla questione, e alla vita di un intellettuale brillantissimo, e una damnatio memoriae ancora oggi non completamente sopita fece il resto.
Spazio Taverna, creatura esperenziale di Ludovico Pratesi e Marco Bassan, ha deciso di celebrare questa (anti?)eroica figura di resistente, e ha ben pensato di affidare l’impresa a un artista extracanonico come Enzo Cucchi, forse tra i più adatti a interpretare lo spirito di Cecco oggi. Il progetto sarà peraltro la prima tappa della rassegna Ascoli Contemporaneo XXI, ideata dall’Associazione culturale Civiltà Picena con l’intento di incrementare la presenza della contemporaneità nella vita culturale di Ascoli Piceno.
Ma c’è un’altra interpretazione a cui è stato chiamato Cucchi, ed è quella del genius loci del Forte Malatesta di Ascoli, architettura iconica e seducente costruita da Antonio San Gallo il Giovane a forma di stella irregolare, e simbolica testa del corpo della cittadina picena. In particolare, è il misterioso spazio centrale del Forte ad aver sfidato Cucchi, spazio che già prima della costruzione dell’edificio apparteneva alla chiesa a pianta dodecagonale di Santa Maria del Lago, e che fino al 1978 funzionò come carcere. Nella sala, intorno al monumentale pilastro centrale, erano tenuti incatenati i galeotti, e proprio attorno a quell’elemento centrale l’artista ha risolto lo spazio, ideando una struttura circolare ma eccentrica, sulla quale sono posizionate, apparentemente sospese, dieci sculture di ceramica, mentre da un lato della sala alcuni dipinti separano idealmente una scala discendente, probabilmente la scala originaria della chiesa.
Le opere si mettono idealmente in risonanza con la storia del luogo, e in particolare sembrano voler rievocare vagamente le esistenze umane che quello spazio hanno abitato e condiviso. Le ceramiche sembrano germinare come inflorescenze spontanee di visioni, composte attraverso quel vocabolario di immagini scaturite dal profondo, che chi segue la ricerca di Cucchi ha imparato nel tempo a (ri)conoscere. Quasi strofe o stanze di una composizione più ampia, si susseguono, forse si rincorrono, combinazioni iconografiche di teschi, scheletri, case, uccelli, fiori, sfuggendo a ogni tentativo di interpretazione – di incarcerazione, si direbbe in questo caso – ma proprio per questo restando possibilità libere di svilupparsi. Nonostante la pesantezza del luogo, legato comunque a storie di privazioni di libertà, e di sofferenza, l’artista ha scelto di lasciare alle sculture una leggerezza scandita dai delicati colori opachi, e sospendendole quasi in bilico come se galleggiassero contraddicendo il loro peso (e del resto, quale visione ha peso?). Se da un lato, le opere scultoree presentano un isolamento spaziale di elementi ricorrenti dell’immaginario cucchiano che finiscono così per apparire ieratici, dall’altro, le visioni dei dipinti, composte liberamente di elementi formali sia riconoscibili sia astratti, sembrano mantenere un registro onirico più terreno e quotidiano (il gatto, i volti di donna, il pesce).
Tuttavia, tra le sculture e le pitture sussiste una fitta rete di rimandi analogici e poetici, dal punto di vista formale e iconografico (si direbbe quasi del “suono”) più che da quello del significato. Infine il progetto di Cucchi, costruito a misura del sito, funziona come un grande canto poetico, le opere al posto delle strofe – forse speculare in qualche modo misterioso a quella famosa Acerba che è l’unica opera di Cecco a essersi salvata dalla distruzione e dalla censura – e come un malinconico omaggio agli eretici e agli irregolari.
Completa la mostra un libricino d’artista: si tratta di un ibrido tra catalogo non convenzionale e «guida “eretica” dedicata ad Ascoli Piceno», nella definizione dei curatori, ed è stato curato da Donatella Ferretti e Tricromia.