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Arte e sperimentazione radicale a Tel Aviv: intervista a Nicola Trezzi, Direttore del Center for Contemporary Art

Nicola Trezzi. Foto: Ella Barak

Dal 2017, Nicola Trezzi dirige il Center for Contemporary Art Tel Aviv (CCA). Abbiamo discusso della sua programmazione, del sistema dell’arte israeliano e delle responsabilità curatoriali in periodi di crisi. La sua storia è un invito ad abbracciare il cambiamento.

Giorgia Aprosio: US Editor per Flash Art International, una delle riviste di riferimento globale per l’arte contemporanea, e curatore della Biennale di Praga e poi… come hai deciso di trasferirti in Israele?

Nicola Trezzi: Ero di base a New York, ma mi occupavo di Flash Art International quindi sentivo la responsabilità di restituire una scena di più ampio respiro, spesso coinvolgendo contributor basati altrove. Arrivavano inviti da qualsiasi parte del mondo, e io andavo, facevo ricerca e commissionavo articoli. Uno di questi inviti arrivò da Artis, un’associazione filantropica che promuove gli “artisti da Israele”(sia israeliani che palestinesi che vivono in Israele)che invita curatori internazionali a soggiornare per brevi periodi a Tel Aviv. Da quel momento, tornai in Israele ogni anno. Nel 2014 mi traferì per dirigere il master in belle arti (MFA) dell’Accademia Bezalel e poi nel 2017 feci il bando per diventare Curatore e Direttore del Center for Contemporary Art(CCA) e vinsi.

G.A.: Il Centro per l’Arte Contemporanea, abbreviato CCA Tel Aviv-Yafo, è la principale istituzione israeliana per la commissione ed esposizione di arte contemporanea internazionale e sperimentale. Quale mission vi siete posti? Qual è la vostra principale attività?

N.T.:CCA Tel Aviv-Yafo è un’istituzione non-collezionistica che promuove pratiche artistiche, discussioni e riflessioni legate alle questioni più rilevanti del nostro tempo. L’obiettivo del Centro è commissionare e produrre nuovi progetti di artisti contemporanei, con particolare attenzione a fornire un contesto istituzionale agli artisti israeliani: israeliani che vivono in Israele, israeliani che vivono all’estero, palestinesi che vivono in Israele, ma anche artisti internazionali provenienti da qualunque posto nel mondo. Quando due anni fa abbiamo rifatto il sito abbiamo scelto di presentare tutto in tre lingue, ebraico, arabo e inglese.

Per spiegare cosa facciamo, uso sempre il museo come contraltare: i musei, soprattutto qui in Israele, vedono il loro principale interlocutore nel pubblico. Il nostro interlocutore direi, invece, che sono soprattutto gli artisti.

“Maxime Rossi: Orchidaceous Extras,” 2023. Veduta
della mostra CCA Tel Aviv-Yafo. Foto: Daniel Hanoch.

G.A.: Sostenete la produzione a livello economico, organizzativo ed espositivo, aiutando l’artista a rendere la sua pratica creativa accessibile a un pubblico più ampio.

N.T.: È la tradizione tipica delle kunsthalle europee: l’istituzione non è il luogo della mostra blockbuster e può persino fare a meno della collezione. Non serve avere file e biglietti prenotati mesi prima. Intendo dire che il nostro è innanzitutto un lavoro di ricerca e poi di divulgazione. I benefici di un’istituzione come CCA si avvertono nel tempo.

G.A.: I progetti che presentate fanno del Centro un luogo vibrante, ma sperimentazione e radicalità spesso hanno un prezzo. Quale è il modello gestionale del museo?

N.T.: Apparteniamo alla rete di enti no-profit sostenuti dalla città di Tel Aviv-Yafo. Questo significa che anche se l’edificio sono messi a disposizione dalla municipalità rimaniamo un ente indipendente. Il supporto pubblico che arriva dal municipio e dal ministero della cultura ammonta in totale al 20% del nostro budget annuo, mentre l’80% è coperto da donazioni.

Marion Baruch, Contenitore-Ambiente, 1970, copia
espositiva, CCA Tel Aviv-Yafo, Courtesy dell’artista.
Foto: Eyal Agivayev

G.A.: Chi sono i principali donatori?

N.T.: Persone fortemente legate a Tel Aviv, che hanno qui case, famiglia o che nutrono un senso di affezione per la città, ma che nella maggior parte dei casi vivono all’estero. All’interno di Israele la filantropia esiste ma in forma molto ridotta: da una parte c’è chi sostiene l’arte locale, troppo spesso senza la forza o la volontà di promuoverla oltre i confini; dall’altra chi dispone di un grande capitale, ma preferisce sostenere grandi organizzazioni all’estero.

G.A.: Eppure il sostegno all’innovazione non manca in altri ambiti: Israele occupa la prima posizione nel mondo per il numero di startup pro capite, spese per la Ricerca e Sviluppo come percentuale del PIL, gli investimenti pro capite in venture capital e gli unicorni pro capite. Tel Aviv, ad esempio, ospita la settima più grande economia di startup al mondo.

N.T.: Se volessimo fare un confronto potremmo guardare all’effetto Silicon Valley a San Francisco, dove membri dell’industria high tech sono stati coinvolti nel collezionismo e nella filantropia che ha contribuito, ad esempio, all’evoluzione di un’istituzione come SFMOMA, gallerie come Pace che aprivano a Palo Alto e così via. Ma negli Stati Uniti, le agevolazioni fiscali sono elevate e questo semplifica notevolmente le cose. Fino ad ora, non abbiamo beneficiato appieno del fatto che Israele sia considerata la nuova “Startup Nation” anche perché la filantropia qua ha tanti altri obiettivi, umanitari e non culturali, oggi più che mai.

“Marion Baruch: Bomba,” 2022. Veduta della mostra
presso CCA Tel Aviv-Yafo. Sinistra: Porta nel paesaggio,
2017. Fibra sintetica e cotone, 250 × 215 cm (circa).
Destra: Bomba, 2022. Vestiti tagliati, 150 × 150 cm
(circa). Courtesy dell’artista e Sommer Contemporary
Art, Tel Aviv / Zurigo. Foto: Eyal Agivayev.

G.A.: Da ottobre in poi le cose saranno parecchio cambiate. Qual è l’impatto della guerra sulle attività del Centro?

N.T.: Alcuni artisti hanno rifiutato di esporre e collaborare con noi, anche prima di questa recente “escalation”. Ora ci troviamo in un territorio inesplorato, considerando l’opinione pubblica e l’attuale situazione a Gaza e non possiamo predire il futuro. La nostra istituzione è non-corporativa, gestiamo ogni aspetto in modo personalizzato, senza limiti e budget predefiniti. Ogni mostra costituisce un universo a sé, e ogni rapporto con gli artisti, ma anche con i sostenitori, è un mondo separato.

G.A.: Eppure ha avuto un peso nella collaborazione con Marinella Senatore (1977, Cava de’ Tirreni). Come state affrontando l’evoluzione del progetto?

N.T.: Il caso di Marinella è particolare perché la sua opera richiede il coinvolgimento di persone locali al fine di realizzare delle performance. Dovevamo originariamente aprire la mostra al pubblico nel mese di novembre, ma ovviamente l’abbiamo posticipata. Stiamo valutando l’evolvere del progetto e al momento non abbiamo una data.

G.A.: In questi anni avete realizzato numerosi interventi dal carattere politico e sociale che hanno coinvolto il pubblico in ottica immersiva o relazionale. Maxime Rossi (Parigi, 1980) per esempio aveva trasformato il piano terra del Centro in un campo da squash realizzato con luci ultra violette…

N.T.: Anche Ari Benjamin Meyers (New York, 1972)con “The Name of This Band Is The Art”ha coinvolto studenti d’arte che sono musicisti, trasformandoli in una rock band che utilizzerà lo spazio espositivo come sala prove per l’intera durata del progetto. A culminare il tutto sarà un solo concerto, l’ultimo giorno, mentre nelle quattro settimane che lo precedono il pubblico può assistere al processo creativo del gruppo musicale e vedere una mostra che presenta le opere degli studenti partecipanti.

I membri della rock band The Art mentre compongono
insieme nell’ambito di The Name of This Band Is The Art
(Tel Aviv-Yafo) un progetto di Ari Benjamin Meyers
concepito per CCA Tel Aviv-Yafo nel 2024. Foto: Eyal
Agivayev.

G.A.: Il vostro programma sembra guardare alla cultura occidentale in maniera critica, alla storia dell’arte a lungo orientata al maschile mettendo in discussione il concetto di genio artistico individuale; il tutto attraverso una lente semiologica, un’analisi ironica, a volte quasi provocatoria. Per esempio avete esposto l’opera di Marion Baruch (Timisoara, 1929), nata e cresciuta in Romania, che ha vissuto e lavorato in Israele negli anni Cinquanta dopo essere scappata dalla Romania e prima di arrivare in Italia.

N.T.: È sempre gratificante collaborare con artisti di grande calibro che, nonostante anni e anni di lavoro, non hanno ancora ricevuto un degno riconoscimento istituzionale. La mostra al CCA si è concentrata sulla sua ultima serie di lavori, realizzati con i resti dell’industria della moda insieme a due opere performative degli anni Sessanta, riprodotte e attivate per questa occasione.

G.A.: Tra le altre avete esposto “Abito-Contenitore” un abito concepito a inizio anni Settanta che copriva la testa e il corpo come un burka, in cui lei stessa si esibiva in una sorta di happening, passeggiando lungo via Monte Napoleone a Milano. 

N.T.: Sì e per l’occasione Marion ha anche realizzato “Bomba” (2022), che ha dato il titolo alla mostra e consisteva in un’inedita composizione monocromatica di suoi abiti. Un’opera importante, che ha aperto una nuova fase nel suo lavoro.

G.A.: Il Centro si propone di fare da “ponte” tra Israele e il contesto internazionale. Che ruolo giocano invece nella programmazione le differenti provenienze nazionali presenti nel Paese e, in particolare, quella palestinese?

N.T.: Israele ha 70 nazionalità diverse, provenienti dall’Europa ma anche da tutto il Medio Oriente, senza considerare nord e sud America. Il discorso sulla gerarchia sociale è molto più complesso di quanto non traspaia e coinvolge infinite dinamiche di origine e provenienza nazionale: ebrei marocchini, curdi, iracheni, iraniani, russi, ecc.. La rappresentanza qui è realmente una questione e non si ferma al fattore palestinese. Al Centro i casi di collaborazione con artisti palestinesi – o di origini palestinesi – non sono ancora tantissimi, o per dirla meglio, sono “calibrati”.Sharif Waked (1964, Nazareth) è un artista molto apprezzato all’estero che aveva esposto poco in Israele e attraverso video installazioni esplora i sistemi di propaganda contemporanea, la cultura digitale e la identità. L’identità ritorna con Karam Natour (1992, Nazareth), che era stato mio allievo all’Accademia Bezalel, il cui lavoro si esprime principalmente attraverso il video e il disegno; per la sua mostraha prodotto con noi un nuovo video e libro d’artista. Jordan Nassar (1985, New York), americano con padre palestinese, lavora principalmente con il ricamo palestinese ma per noi ha fatto un progetto molto diverso, unico nel suo genere. Anche Meyers ha deciso di coinvolgere nel suo progetto gli artisti palestinesi Wisam Gibran, SaherMiari e Muhammad Toukhy,in quanto autori del libro che i membri della band usano per comporre le loro canzoni. Riflettere la complessità sociale e non solo sulla complessità sociale,è una responsabilità. Si tratta di un progetto sperimentale che l’artista porta avanti dal 2016, di cui ha realizzato diverse versioni: la nostra può certamente considerarsi unica e adattata alle circostanze attuali.

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