Riassumere in breve le diverse vite di Sam Havadtoy (Londra 1952), ex gallerista, ex arredatore d’interni, ex compagno storico di Yoko Ono dopo John Lennon, che ha vissuto al centro della scena newyorchese cultural-mondana anni ’70 e ’80, dove ha frequentato tra gli altri i protagonisti di Studio 54 e dintorni, Andy Wharhol, Keith Haring, David Bowie, tanto per citarne alcuni, è una missione impossibile. In una parola l’eclettico artista di origine ungherese, che vive tra Budapest e Milano, è un migrante fisico e concettuale autentico, che trova negli intrecci e simmetrie narrative tra culture diverse di ieri e di oggi, trame sempre contemporanee.
A Milano, con “HOMAGE. Cultural Migration (Migrazioni culturali)” a cura di Gino di Maggio, fondatore e presidente della Fondazione Mudima, Sam Havadtoy torna “a casa” per la sua terza mostra personale, incentrata sul tema delle contaminazioni nell’arte.
In mostra troverete 22 opere del 2023 di un’artista riconoscibile tra mille per tecnica e linguaggio, che presenta 11 maestri delle avanguardie del Novecento, tutti migranti. Al primo e secondo piano della Fondazione scendono in campo Mark Rothko, Andy Warhol, Alexej von Jawlensky, Max Ernst, Victor Vasarely, Piet Mondrian, Marc Chagall, Làszlò Moholy-Nagy, Max Beckmann, Pablo Picasso, e l’unica donna inclusa nel gruppo nomade è Tamara de Lempicka. Per ciascuno di questi artisti Havadtoy sceglie un loro quadro e ne ricava due copie fedeli, che, reinterpretate alla sua maniera, generano altre riflessioni. Una delle due si vede interamente, mentre davanti alla seconda copia Sam aggiunge una quinta scorrevole, un siparietto che i visitatori possono spostare, aprire o chiudere per scoprire o celare l’immagine. Al di là di questa trovata scenica, incanta la sua cifra stilistica, ovvero l’abilità dell’utilizzo del pizzo, il merletto, introdotto dal 2000. E chi non ricorda quel centrino di pessimo gusto delle nostre nonne, o non ha avuto almeno una lontana parente che in casa li adagiava ovunque su mobili, cuscini, copriletto, tv e radio? Attenzione perché, il pizzo in alcuni popoli dell’Est, e non dimentichiamo che Havadtoy è di origine ungherese, viene utilizzato per ricoprire le salme prima di chiudere la bara. Questa è una tradizione radicata nella cultura popolare, che permetteva di intravedere il volto del defunto in maniera gentile ai parenti e conoscenti, prima della loro sepoltura.
Havadtoy incolla frammenti di pizzo sulle sue tele, strato dopo strato li ricopre di colori, creando uno straniante e raffinato effetto “puntinista” che sarebbe piaciuto a Georges Seurat, alterando vuoti e pieni, in cui l’equivoco, l’enigma della visione è alla base della sua composizione stratificata, risolta in cortine-sipario aperte a diversi punti di vista. Le sue opere migranti sospese tra rivelazione e sparizione, ispirate alle opere di protagonisti dell’avanguardia del Novecento, dipendono dalla percezione soggettiva, non sono epiche, né cambiano il modo di vedere il mondo, hanno un valore relativo, si basano sul ricordo dell’autore e sulla sua poetica del frammento, uniche perché ordiscono trame di complessità sul significato delle contaminazioni nell’arte. Tutte le opere esposte alla Mudima si pongono come una straniante riflessione sul linguaggio della pittura, sul nomadismo segnico e concettuale dell’arte che si alimenta e rigenera dalle contaminazioni culturali.
Havadtoy in questa mostra mette in campo una improbabile squadra di calcio rappresentativa dell’arte del XX secolo, composta da 11 artisti prescelti, ai quali affida a ciascuno un ruolo specifico. Per esempio Picasso è centrocampista, Mondrian è mezzala sinistra…gli altri componenti di questa stralunata squadra scopriteli voi, leggendo a fianco di ogni opera esilaranti narrazioni di migrazioni possibili tra passato e presente. Invece sono diversi i suoi quattro monocromi (collages) in cui compaiono frasi sovrapposte a stratificazioni di pizzo: con LOVE IS HARD WORK, STIAMO COME STIAMO o MEMORY OF LOVE, comprendiamo che per Havadtoy migrazioni culturali e vecchi merletti segnano il delitto dell’ovvietà.