Quando si parla di creazione, spesso si inciampa nel cosiddetto “blocco della scienza”, una “sindrome” che per alcuni non aiuta ad incanalare le idee nel verso giusto e a farle crescere fino a renderle reali, realizzabili o possibili. In scienza sappiamo che tutto ciò che è provabile è reale, più una cosa è stata confutata è più è scientificamente accettata
Il tema della creazione è sempre molto complicato, da qualsiasi punto di vista lo si guardi; tant’è che in molti parlano di codici della vita e molte filosofie, tra cui anche quelle asiatiche, interpretano la vita seguendo codici ben precisi. Se guardiamo ai giorni nostri, dove l’intersezione tra tecnologia, biologia e arte diventa sempre più stretta, la mostra “Blueprint” negli spazi temporanei del Museo si Cà Pesaro a Venezia ci invita in un’affascinante esplorazione dell’essenza stessa della vita, o di come è possibile immaginarla. Ma andiamo al punto della questione: non più confinato a essere un semplice disegno tecnico, il termine “Blueprint” qui, in questo spazio così piccolo ed intimo, assume un significato più ampio, fungendo da metafora per il disegno di base del design della vita. Wang Jingyun, un giovane artista con un gran sorriso e un preciso meccanismo, con un approccio innovativo e provocatorio, ci invita a riflettere sulle questioni fondamentali dell’identità, dell’eredità, del destino e della vita stessa. Attraverso le 23 coppie di cromosomi come elementi fondamentali della sua arte, crea un linguaggio visivo asemico ispirato al ritmo, all’armonia e alle pause silenziose della poesia classica. Questa “scrittura” senza parole va oltre la tradizionale comunicazione verbale, giocando con il concetto di eredità genetica come se fosse una forma di poesia visiva.
Ogni pezzo nella mostra è accuratamente scelto e posizionato per rappresentare un cromosoma specifico, diventando le “parole” di un testo non scritto, la cui trascrizione sfugge alla comprensione letterale ma rimane intensamente significativa. Le opere esposte nella mostra “Blueprint” non sono solo arrangiamenti estetici, ma rappresentazioni simboliche delle interazioni tra geni che definiscono le proprietà biologiche di ogni essere vivente. Nel comporre queste coppie di oggetti, Wang Jingyun considera non solo le loro qualità fisiche ma anche le loro simbologie, come il materiale, le dinamiche di relazione e la loro storia. Questa selezione minuziosa mira a riflettere la natura essenziale e intrinseca degli oggetti scelti, simili a come i geni determinano le caratteristiche di un organismo. L’interpretazione artistica non si ferma alla mera rappresentazione; come le tre dee del destino nella mitologia greca, che tessono il filo della vita controllando il fato degli uomini, così l’artista intreccia simbolicamente la “nuova vita”, trascrivendo il significato stesso della nostra esistenza. Il risultato è una riflessione profonda sulla fluidità dell’identità umana, sulle nostre origini e sulle infinite possibilità che la vita futura potrebbe offrire.
L’interazione del pubblico con l’opera completa l’esperienza, poiché la partecipazione attiva diventa parte integrante della riproduzione e rimodellazione della memoria genetica. “Blueprint” non si limita a esplorare la biologia umana, ma pone interrogativi essenziali sulla nostra evoluzione e la nostra esistenza futura, spingendo i confini tra l’umano e il non umano, e tra l’arte e la scienza. Wang Jingyun, senza dirlo, gioca a fare la divinità e con le sue opere gli riesce bene; un bel affronto potrebbe sembrare a primo acchito, ma in realtà è una bellissima danza che l’artista prova a fare con o senza l’ausilio di chi guarda. Del resto, sappiamo che ogni filosofia ha il suo tempo per prendere il passo, proprio come alcune scoperte scientifiche che secoli fa sembravano solo teoriche e che oggi sono fatti concreti. “Blueprint” è un’esplorazione artistico-scientifico-filosofica attraverso il design genetico della vita, un invito a riconsiderare le nostre radici biologiche e le nostre prospettive future in un contesto artistico straordinariamente intimo e provocatorio. Quest’opera rappresenta una sfida alla nostra percezione della vita, invitandoci a immaginare un futuro in cui le definizioni tradizionali di umano potrebbero non essere più sufficienti, o potrebbero addirittura mancare (forse).