Ceramica, luxury, tessile, design. Un poker di chiavi necessarie a decifrare velleità e tendenze del sistema dell’arte 2024, che si sposa con una altrettanto mano vincente: Surrealismo, America Latina, Parigi e artiste donne, storiche o contemporanee, meglio se “riscoperte” e sensibili a temi politico-sociali. Matrici che si contaminano tra di loro e trovano sfogo concreto nelle maggiori manifestazioni internazionali, espositive o fieristiche che siano. Vedi alla voce, in serie: Biennale di San Paolo, Biennale d’Arte a Venezia, Biennale del Whitney, Frieze a Los Angeles, Tefaf a New York, aspettando Basel a Basilea la seconda settimana di giugno. Paradigmi che tramano le proprie fila all’interno degli ampi spazi delle Corderie e dei Giardini, come negli angusti metri quadrati di un qualunque booth di livello, spesso in una girandola di manifatture e materiali tanto diversi quanto propedeutici a ricomporre un salotto di Lexington Avenue o di Faubourg Saint-Honoré. Lampadari, arredo, vasi, gioielli, tele, sculture. Pacchetto pronto, salone confezionato, stand venduto: l’esposizione delle “opere”, almeno per quanto riguarda la categoria “fiera”, è sempre più eterogenea e diversificata. Parola d’ordine: commistione, contaminazione. Come si dice in gergo, specialmente nel campo delle aste, un’offerta “cross-category” alla quale va a braccetto il concetto di “artificazione”. Riflesso raffinatissimo di come vanno le cose, nell’accezione più positiva che ci possa essere, è la decima edizione di Tefaf, in trasferta dal 10 al 14 maggio nel cuore dell’Upper East Side, il salotto buono dei billionaire newyorkesi, che per la cronaca sono sempre di più, per il bene del settore. Secondo l’ultima ricerca di Henley & Partners, difatti, sono oramai quasi 350 mila i residenti della Grande Mela milionari, ovvero uno su ventiquattro. New York City ospita anche 744 centi-milionari e 60 miliardari. La ricchezza totale complessiva dei residenti della città supera i 3 trilioni di dollari. Non è un caso che da queste parti le settimane dell’arte consecutive sono ben tre, dal duo fieristico Frieze e NADA che ha aperto le danze a fine aprile fino all’ultima delle sessioni d’asta del prossimo 17 maggio, con tanto di sfilata del Met Gala avvenuta il 6 di maggio tra la chiusura di una fiera e l’altra.
A Manhattan i fiori cascano dal soffitto come a Maastricht, cristallizzati nei totem di peonie, ma lo struscio della preview dura solo un giorno (il 9 maggio, nel Limburgo sono tre), in proporzione anche al numero di gallerie, 90 rispetto alle 270 olandesi. Garantite le vendite (sia il primo giorno, sia nel weekend, c’è più lentezza e cautela negli acquisti data la precarietà e l’instabilità dei tempi che corrono). Sfilata di attori, star e starlette (Leonardo Di Caprio e Woody Allen sono praticamente dei resident, così come Ronald Lauder, David Geffen e Martha Stewart) e di mega collezionisti provenienti da ogni parte degli States e dal Canada (oltre 60 i gruppi di mecenati e big collectors di musei, tra cui l’Apollo Circle del Metropolitan, il MoMA, il Getty, gli American Friends del Louvre, dell’Orsay, del Pompidou). Parata di direttori e curatori (oltre 50, tra cui Andrea Bayer, Anne-Lise Desmas, Barbara Haskell e Davide Gasparotto), ma soprattutto scorrere di fiumi di champagne e ostriche che si aprono appena alzati i battenti del Park Avenue Armory, storica sede del settimo reggimento della Guardia Nazionale dell’Esercito degli Stati Uniti divorata dai palazzoni dell’avenue omonima. I galleristi, qua, sono praticamente tutti di casa, almeno per quanto riguarda gli americani. Di Donna, Gagosian, Skarstedt, Salon 94, Almine Rech, White Cube, Petzel e via dicendo, tutti con base appena girato l’angolo sulla Madison. Logisticamente ineccepibile l’evento, con Sotheby’s, Christie’s e Phillips a pochi isolati (in ghingheri per le aste clou della stagione, le Spring Sales, in programma dal 14 al 17 maggio) e tutti i grandi musei a portata di mano, Met Breuer compreso (ora chiuso, ma prossima sede del quartier generale di Sotheby’s dal 2025) come la Frick Collection pronta a riaprire questo autunno definitivamente. Il Central Park funge da sfiatatoio, come Regent’s Park per Frieze, le Tuileries a Paris+ (da quest’anno con il Grand Palais non Éphémère completamente rinnovato, fino all’anno scorso era Champ-de-Mars), il Reno per Basel, la Mosa per Maastricht, la spiaggia per Miami. Luci, moquette e cascate di fresie: l’eleganza regna sovrana, dalla curatela di (quasi) tutti gli stand agli inserti geometrici tagliati sul soffice manto grigio-viola che scorta i visitatori in fiera. L’andazzo è palese appena oltrepassata la prima soglia temporale tempestata da gigli e ranuncoli all’ingresso: Gagosian a destra, con la combo Brice Marden (scomparso un anno fa e in profumo di record martedì da Christie’s – Event del 2004-7 stima 30-50 milioni di dollari, il record è fermo a 30,9 milioni) e Cy Twombly, insieme sotto l’egida dinamica del segno e del mito; la galleria Jacques Lacoste (dalla Senna con amore e già PAD Parigi e Design Miami) a sinistra, che ricrea la Sala da Ballo del Barone Roland De L’Espée, realizzata da Jean-Michel Frank, Alberto Giacometti, Salvador Dalì (suo l’iconico divano Bocca, in raso rosa e velluto rosso, che imita le labbra dell’attrice Mae West) e il nostro Filippo De Pisis in bella mostra con un paravento sublime. Un frammento struggente della Parigi anni Trenta catapultato nella New York inquieta del terzo millennio. L’ideatore, Frank, fu l’unico architetto incluso nella storica esposizione sul Surrealismo del 1936 al MoMA curata da Alfred Barr; e poi Landau, tra Zwirner e Gagosian, imperturbabile. Il mercante rimane il caposaldo della vecchia scuola: stand immutato dalle passate edizioni e offerta identica a quella di due mesi fa a Maastricht, il Kandinsky (Murnau mit Kirche II del 1910, capolavoro giovanile dell’artista che lo scorso anno era volato in asta a 44,9 milioni di dollari, la richiesta in fiera è tra i 50 e i 60 milioni) e il bellissimo Picasso ad intagli rossi del 1927; David Zwirner, sempre nel primo step del salone principale, ricama uno stand coi fiocchi, facendo gravitare una selezione di Nature Morte di Morandi (richiesta dagli 850 mila a 3,5 milioni di dollari) su una sfilata di vasi di ceramica di George Ohr, indimenticato ceramista del Mississipi. Sul cielo della quattro gallerie d’ingresso galleggia una installazione rosa trasparente e fiammeggiante dell’artista ucraino Aljoscha (1974), impressioni metamorfiche viste recentemente, durante la Design Week milanese, tra la Chiesa di Santa Maria degli Angeli e Tempesta Gallery. Si tratta di una delle cinque opere “extra” che costellano gli angoli e le architetture della fiera.
Torniamo sulla terra, tra i corridoi industriali dell’Armeria. Due tra i pezzi in assoluto più cari la dicono lunga su quanto anticipato nell’incipit: l’uccello a dondolo di Lalanne e la figura onirica e straziata di Rufino Tamayo su una tavola cremisi. Cominciamo dal primo. L’Oiseau de jardin à bascule è una delle creazioni iconiche di François-Xavier Lalanne. Datato 1974, è una fantasmagorica creazione in acciaio e rame che trasforma l’immagine di un passero in una sedia a dondolo, il cui movimento diventa metafora delle movenze del pennuto intento a beccare. Offerto dalla parigina Galerie Mitterand, la richiesta è tra i 5 e i 6 milioni di euro. Il record d’asta per un’opera del designer (la coppia di designer, per essere precisi) è dello scorso ottobre: 18,3 milioni da Christie’s Paris per Rhinocrétaire I (1966). Il secondo pezzo in questione parla messicano, enclave tra le più in voga assieme a tutto il Centro America nel sistema dell’arte odierno. Si intitola Claustrofobia ed è un’opera storica di Tamayo (1954), quotata 3 milioni di dollari dai proprietari, la Galleria Leon Tovar (New York, Bogotà), trasferitasi nella Grande Mela vent’anni fa e tra le maggiori promotrici del Surrealismo nella sua declinazione “latina”. Geografia riscoperta e consacrata appena due anni fa grazie alla Biennale di Cecilia Alemani e alle mostre tra 2021 e 2022 come Surrealism Beyond Borders (Tate e Metropolitan) e Surrealism and Magic: Enchanted Modernity alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia – di cui è espressione apicale quel Les Distractions de Dagobert di Leonora Carrington, tempera su masonite del 1945, in asta mercoledì nella Modern Evening Auction di Sotheby’s; capolavoro “garantito” e stimato 12-18 milioni, destinato a polverizzare il precedente record, Il giardino di Paracelso a 3,3 milioni di dollari. Effetto Biennale. Quello di cui sta beneficiando sulla parete limitrofa nello stand, sempre dentro Leon Tovar, una delle pioniere dell’arte moderna colombiana, Emma Reyes (1919-2003). Una delle grandi riscoperte, vedi il successo di critica riscosso in queste settimane post-inaugurazione lagunare, di Adriano Pedrosa. In fiera è presentata attraverso una costellazione di lavori su carta dagli anni Cinquanta ai Sessanta, prezzati poche decine di migliaia di dollari, volti a saturare quasi tutto lo spazio verticale.
Quadreria claustrofobica anche per BLUM (senza più il socio POE da qualche mese) per sviluppare al meglio la mostra curata da Alison Gingeras e intitolata Pictures Girls Make: Portraitures. Tripla Parete su fondo granata con mosaico di quadri di Orozco, Warhol, Duchamp, Sicilia, Tuazon, Ligon, solo per citarne alcuni, che rappresenta il secondo capitolo della stessa collettiva presentata nella sede di Los Angeles, un focus sulla ritrattistica come “forma eternamente democratica e genere umanistico”. Solo show per Thaddaeus Ropac con l’astrattista americana 84enne Joan Snyder (il dittico Primary Fields del 2001 venduto per 350 mila dollari a un’istituzione asiatica, mentre per i lavori su carta si va dai 15 ai 40 mila dollari l’uno), reduce dal record d’asta di pochi mesi fa con The Stripper, battuto a quasi mezzo milione di dollari. Le altre personali in fiera sono quelle dedicate da Petzel al pittore e incisore francese Roger-Edgar Gillet (1924-2004) nel centenario della nascita (discorso valido anche per il sempiterno Surrealismo, il Manifesto di Breton è del 1924), dalla elevata pastosità pittorica, calibrata sui toni del bruno e dell’ocra, degna di Frank Auerbach (presente anche da Hazlitt Holland-Hibbert in contrapposizione a due tiepidi acquerelli di Lucian Freud e ai frammenti di dramma di Paula Rego), Eugène Leroy, Jean Fautrier e Maria Lassnig (di cui inaugura una retrospettiva in sede il 15 maggio). Totalmente in antitesi rispetto a Gillet è l’ultimo solo show tra le navate fieristiche: i piani analitici bianco su bianco del polacco Raimund Girke (tutti i lavori degli anni Settanta) da The Mayor, sui quali si impone il mantra recitato nello stand a caratteri cubitali: Silence, eptiness, breadth – places of rest, places of recollection. Ma lo scettro del migliore stand in assoluto quest’anno -a detta dei più, visto il proliferare di copertine celebrative- va a Jeanne Greenberg-Rohatyn, fondatrice di Salon 94, e alla sua preziosa “riscoperta”: Rebecca Salsbury James. Pittrice londinese autodidatta (1891-1968), amica di Georgia O’Keeffe, sposata con il fotografo Paul Strand, nonché modella e musa ispiratrice di Alfred Stieglitz, la sua ricerca è un compendio di lirismo e intimità tradotti su lastre di vetro. Song Without Words, Pansy Bouquet, Taos Geranium, Peace (anni Trenta) sono sintetiche composizioni di Nature Morte dipinte ad olio, il cui valore oscilla tra i 250 e i 400 mila dollari, assemblate nello stand con pezzi di arredo scolpiti in bronzo e porcellana da David Wiseman, tra i più importanti designer contemporanei statunitensi. Nella top three degli stand maggiormente curati, quelli che meritano almeno una menzione, seguono Di Donna e White Cube. La prima si concentra sul cosmo facendo brillare al suo interno opere di Paul Klee, Alexander Calder, Yves Tanguy e Yves Klein, con un range di prezzi compreso tra 700 mila e 2,5 milioni di dollari. Se di Klee e Calder l’invito è di andare direttamente in galleria sulla Madison a toccare le forze invisibili dell’universo sprigionate nel dialogo tra i due (Enchanted Reverie, sino all’8 giugno), di Tanguy è bene restare in fiera a contemplare i due lavori “rari e speciali” offerti dalla galleria, entrambi del 1945, quando il surrealista parigino viveva in Connecticut con la sua seconda moglie, la pittrice e poetessa Kay Sage. Altro nome da segnare per i mesi a seguire, tra aste e fiere. Di Klein, invece, oltre alla fiera, è buona cosa puntare dritto verso la sede di Lévy Gorvy Dayan tra la Madison e la 64esima, per ammirare la più bella mostra di tutto il maggio newyorkese: Yves Klein and the Tangible World. Una rassegna museale da trenta lavori che racconta l’impegno del corpo nella poetica del visionario artista francese. Le forme tattili e sinuose delle Antropometrie di Klein non possono che rimandarci nello scheletro industriale della fiera, dove una nuvola solida catalizza il cuore dello stand di White Cube, l’ultimo della nostra scelta. Sopra la nube si stagliano sculture di David Smith, Isamu Noguchi, Richard Hunt e soprattutto Anthony Gormley (in mostra contemporaneamente anche in galleria con una doppia installazione immersiva monumentale), su cui orbitano un compendio di tele di Ruscha, Ryman, Pollock e una Lee Krasner (The Farthest Point, 1981) da quasi 4 milioni di dollari.
Capitolo italiani. Tra le poche partecipazioni nostrane -sei: Cardi, Mazzoleni, Continua, Tornabuoni, Galleria d’Arte Maggiore, Massimodecarlo- svetta quest’ultima con il solito Salvo accompagnato egregiamente da due rari lavori in formato tondo di Etel Adnan (200 mila dollari l’uno), grandissima artista libanese ora in Biennale, e del profeta di casa (sia perché è americano sia perché è in scuderia con De Carlo) John McAllister. Buona scelta anche per Robilant+Voena, più londinese che milanese, Galleria d’Arte Maggiore e Mazzoleni, con un Bianco Plastica (1965) di Burri, da 1,5 milioni di dollari e l’ennesimo Salvo, La Valle (2006) sui 450 mila. Tra le chicche in giro per le tre navate allestitive che sezionano l’Armeria, segnaliamo un leone egizio, accovacciato, in legno, da 110 mila dollari (Charles Ede); la Moon Blue (1963) di Helene Frankenthaler che risplende nel cielo di Yares Art; il fotorealismo liquido anni Settanta degli acquerelli di Ralph Goings da Waddington Custot; i quasi 4 metri di arazzo (tiratura da otto esemplari) di Gerhard Richter, Yusuf del 2009, visto nel 2013 in mostra da Gagosian a Londra (Anthony Meier). Un pezzo simile, ma ad olio, è in asta ora da Christie’s (Abstraktes Bild del 1988, stima 10-15 milioni di dollari); il “design and furniture” del XX secolo di Demisch Danant, Patrick Seguin e Galerie Marcilhac; i gioielli d’artista di Otto Jakob e le opere tessili di Olga de Amaral (altra artista ora in Biennale) vendute a oltre 200 mila dollari da Lisson; menzioni d’onore per Axel Vervoordt e Ariadne che sfruttano sapientemente i posti riservati al primo piano, grazie al velluto e a una rete metallica che avvolge le opere dei rispettivi stand, lasciando così la quinta teatrale neogotica connotativa del luogo. Per il super contemporaneo, impossibile non citare Venus Over Manhattan, con lavori monumentali di Robert Colescott, Peter Saul, Xenobia Bailey e Claude Lawrence. Chiosiamo da dove siamo partiti, senza smarrire i nostri otto punti cardinali. Il primo di questi era “Ceramica”. Se spesso la troviamo in un corpo a corpo con altri linguaggi artistici, a Tefaf la londinese Offer Waterman presenta un trittico d’autore dedicato a quella cosiddetta “arte minore”. Tre ceramiste, Lucie Rie (1902-1995), Magdalene Odundo (1950) e Jennifer Lee (1956), considerate tra le massime rappresentanti e influenti della propria generazione, si ritagliano uno spazio privilegiato all’interno della fiera (con prezzi che vanno dai 15 ai 450 mila dollari). Specchio dei tempi, fragili, che corrono, che qua accadono prima che in ogni altra parte del mondo.