L’Alfabeto Blanco di Giovanni Blanco, esposto fino al 5 luglio 2024 presso la Nuova Galleria Morone di Milano, racconta della crisi, dell’urgenza più che concreta di andare a ritroso e senza la minima accezione al senso nostalgico.
Partire dalle origini. Iniziare da ciò che è nascente, dal fatto concreto di un episodio, una situazione, dall’implicazione promettente e affettiva di un dato ricordo. Dalle fotografie, tra le mille che ne possiede, per poi estrapolarne tredici e nient’altro. È dunque questo lo spunto (o uno dei tanti possibili). Il sintomo pittorico del percorso che Giovanni Blanco ritrova e richiede a se stesso; lo cerca, ma per incontrarlo di nuovo come leva sulla quale poggiare per una nuova direzione.
L’Alfabeto Blanco, esposto fino al 5 luglio 2024 presso la Nuova Galleria Morone di Milano, dice quindi della crisi, dell’urgenza più che concreta di andare a ritroso e senza la minima accezione al senso nostalgico. Poiché vinto, al contrario, dalla necessità più che incessante di un principio: un principio che forse ha bisogno di essere, in qualche modo, reinventato, nei termini letterali di un rinvenimento. Immagini autobiografiche, pertanto, nelle tonalità del grigio. Il ritratto di sua madre, un nudo di donna, una sedia, una casa…capostipiti di un atlante privato, ora dipinti come fossero fotocopie; fino alle increspature che il tempo segna sulla carta fotografica, e indici, a loro volta, di un imprinting, di un’escoriazione materica che altro non suggerisce se non il limite fisico connaturato al supporto.
Nel rimando implicito all’Atlante di Aby Warburg, così come all’opera Atlas di Gerhard Richter, il tempo, di fatto, entra nell’immagine, la riscrive e ne permette ora la sua fruizione. Diventa chiave d’accesso per una partecipazione intima, particolare, e insieme esposta alle fasi di “un altro” riconoscimento. Quell’altro che sembra porre, infatti, i caratteri dell’universale, dell’eventualità prossima e futura, ma passata anche, e che continua a persistere nel filo sotteso della diversità. Nell’unità e nell’ampiezza tanto dell’immagine (o delle immagini), quanto nella “virtualità” del medium pittorico che seguita a riscrivere se stesso.
Quella presa fisica legata al gesto attivo; all’amore al gesto che di certo non può che essere del pittore, e ciononostante si trascina al di fuori della sua logica ed è, in una certa misura, consegnato. Omaggio latente all’Untitled (The end) di Felix Gonzales Torres, una pila di fogli non rilegati con uno spesso bordo nero stampato attorno ai quattro lati. Opera del 1990, opera che indica una fine (la possibilità che i fogli finiscano, poiché raccolti dagli spettatori) e opera senza fine (per la possibilità che la pila di fogli possa essere di nuovo rinfoltita).
Eppure, a dire il vero, non vi è nessuna pila nell’esposizione di Blanco, e nessun atlante, nessuna iterazione di oggetti e materiali preesistenti. Solo non la “messe”, per dirlo metaforicamente, ovvero la quantità innumerabile del coltivato. Il lavoro stesso, in altre parole, il metodo e l’esperienza che, ora in-opera, si riapre al gusto della traiettoria, della necessità malinconica del fare e del farsi della pittura, come del fare e del farsi dell’immagine quale esperienza diretta. È in ogni quadro che, perciò, si possono riscontrare i geni della nascita.
La “scrittura prima” apparentemente celata (ma perché chiarissima) rintracciabile, ad esempio (e giusto solo per fare qualche passo indietro negli anni) in due piccole opere su carta del 2014 intitolate La scatola del pittore. Una a matita (copia dal modello) e l’altra a colori, realizzata con la tempera. Due scatole, eppure una. Contenitori “piegati” e “spiegati” contemporaneamente. “Capaci”, a loro volta, di “comprendere” e di dare credito, secondo vie pittoriche immisurabili, al vissuto anche drammatico che si ripropone. Da un lato la grafite con le sue scale, che la mettono in diretta connessione con la mostra milanese, e dall’altro il colore che, con le parole di Massimo Pulini, porta “elementi di chiarezza se non proprio di svelamento”. Rivelazione sì del dato e dell’immagine, ma rivelazione della memoria e del vissuto che in essa si rende evidente. Tautologia che chiama, del metodo che nominando se stesso nomina la cosa.
È il colore formante, preponderante nei nove piccoli quadri che compongono la serie Tutto quello che accade (2023) o che si ritrova, in estrema sintesi sulla cornice dipinta di Tre volte canto (2023). Quasi che le tinte primarie e il verde, ognuno su un lato del supporto, fossero di per sé il richiamo alla memoria di un’origine. In questo caso rintracciabile nella figura di un gallo. Vi è poi il colore forse più ignoto, avvolto da un mistero, de Il tempo materiale (2023). Nel quale adese in superficie al soggetto dell’opera si presentano due strisce di colore, una gialla e una rossa. Come una strada che ripercuote se stessa, cercando di omettere la staticità del virtuosismo della costruzione e della considerazione dell’immagine. Come se non bastasse, come se il pittore (e l’immagine stessa al pittore) non mancasse mai di ricordare che l’obbiettivo raggiunto è vacuo. Incapace di restituire la complessità di un semplice volto, o le variabili tonali di un monocromo. Per quello che sono, per tutto quello che portano.
La scimmia che Giovanni Blanco ha più volte dipinto con tanto di tavolozza in mano, o un pennello; la scimmia pittrice è certo un evento. L’evento di un incontro che ha segnato il pittore all’età di undici anni e paradigma dell’unità della riflessione continua della pittura su se stessa. La scimmia dipinta, ma che dipinge. Il fatto riscontrato e reale. Ciò che segna e apre alla via di un’ipotesi. La pulsione e l’esperienza. Il vissuto e la dinamica di una necessità che porta a “dover” percorrere una strada non percorsa, o a ritrovarla. Come dato vissuto e visto per la prima volta in una certa strada di Rosolini. Anch’essa, la scimmia, in sintesi, è esempio di estetica chiarezza. Di un “modus operandi”, racconta il pittore, “che passa inevitabilmente dal mio vissuto e dal ricordo”.
Dal colore si volge poi al grigio. Alle tonalità dei grigi, per individuare di nuovo un Alfabeto: “Lo spazio ambiguo”, continua Blanco, “in cui tutte le forme si rincorrono e si allontanano: una tassonomia della mia storia sempre aperta”, ma anche, “un ragionamento freddo e distanziato sul fare pittura”. Una parola che contiene possibilità di parole, e l’immagine che contiene possibilità di immagini.