Giusva Pecoraino, classe 1962, palermitana vulcanica, artista eclettica dalla creatività incontenibile, figlia di Aldo Pecoraino, pittore illustre tra i pilastri della cultura siciliana, cresciuta tra tele, colori, oggetti di antiquariato, scrittori amici di famiglia, che mescola pittura, performance e assemblaggi multimediali, docente appassionata di Decorazione e tecniche performative per le arti visive all’Accademia di Belle Arti di Palermo, in questa intervista racconta la sua visione di arte e la sua “invisibilità”.
Dal teatro alla pittura, da quando dipingi senza regole?
A 6 anni sono intervenuta su un dipinto di mio padre e sulle tracce di dettagli da lui cancellati ho rielaborato un carboncino che ho firmato; è stata la mia prima opera. Ho studiato danza classica da 5 a 21 anni con Ludwing Durst, coreografo polacco, intanto frequentavo il liceo linguistico-artistico e l’Accademia di Belle Arti indirizzo Decorazione a Palermo. Con mia sorella, Veronica Pecoraino, artista, condivido diversi progetti e abbiamo un rapporto speciale. A Roma ho vissuto due anni per studiare teatro e tecniche cinematografiche con Francesca de Sapio, poi ho frequentato diversi workshop di regia con Lindsay Kemp, Bob Wilson e molti altri autori. Mi sono formata nell’ambito teatrale sul campo, facendo diverse esperienze, intanto ho sempre dipinto, perché la pittura è parte di me.
Quali sono i tuoi soggetti preferiti e perché?
Figure, spesso ambienti e luoghi del mio quotidiano, ritratti soprattutto femminili, poche nature morte, composizioni visionarie. Nelle mie opere scrittura e pittura coincidono, quasi una scrittura automatica suggerita dall’inconscio. La mia pittura attinge dal mio quotidiano, dalle mie oscillazioni emotive, incontri e suggestioni, in cui memoria e realtà rappresentano un eterno presente. Negli ultimi lavori sono sempre più surreale e aperta a nuove esplorazioni e progetti anche condivisi con altri artisti.
Come unisci la performance alla pittura nella tua ricerca artistica?
La performance e la pittura sono due componenti della mia ricerca, entrambe sono parti di me, arti del comporre: la prima con l’azione, la voce, lo spazio e l’interazione con gli altri performer e con il pubblico, mentre la pittura è un processo per me più introspettivo. Forse dipingendo svelo la mia timidezza che invece supero in scena di fronte al pubblico. Dipingo per me stessa e così mi calmo, vivo l’atto creativo in totale concentrazione e immersione, perdendo la cognizione del tempo, e in quell’istante mi piaccio da morire. Sono due realtà che possono incontrarsi per creare, per esempio, anche un allestimento eclettico composto da più parti che possono fondersi tra loro, producendo sempre nuove opportunità di ricerca trasversale, un dialogo tra discipline diverse, in cui il suono, la musica, assume un valore determinante.
Quanto ha inciso nella tua formazione essere figlia d’arte?
Molto, a volte negativamente. A Palermo spesso sono stata esclusa in certi contesti, proprio perché figlia d’artista. Ho vissuto in una casa ricolma di opere d’arte, libri, cataloghi dei maestri della pittura, colori, pennelli, oggetti di antiquariato di mio padre e della mia famiglia, fotografie, documenti storici e diversi oggetti di collezionismo di mia madre, Maria Isabella Crescimanno di Capodarso, ultima discendente diretta insieme al fratello Cesare di una famiglia aristocratica dei Tomasi di Lampedusa, ma spesso mi vergogno a dirlo. Sono nipote di un nonno che nacque nella villa Lampedusa di San Lorenzo ai Colli e provo imbarazzo a raccontarlo.
Vivi a Palermo nel cuore della Vucciria. Come rientra nel tuo lavoro l’essere frutto di questa affascinante e complessa città?
Vivo qui da trent’anni, prima abitavo con la mia famiglia nel quartiere Libertà. Stare nel centro storico mi fa compagnia, mi aiuta e mi fa sentire meno sola e parte integrante di questa città, fatta da persone, luoghi e colori che la animano, nel vivo di una ‘commedia umana’ che diventa fonte d’ispirazione per le mie opere. La mia casa l’ho comprata con Nino Vetri in lire, l’ex marito, quando Palermo era diversa. Allora ero giovane, innamorata pazza e anche incosciente e piena di sogni e di entusiasmo. Ricordo che per una mia mostra personale nel cuore della Vucciria, scrissero una recensione con il titolo “La Vucciria di Giusva”. Lea Mattarella, curatrice e critico d’arte, si è innamorata del mio lavoro, poi mi propose di partecipare a una importante mostra ai Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, e fui scelta tra 14 artiste di fama nazionale per l’esposizione intitolata “Una stanza tutta per sé” (2001). Oggi tutto è cambiato, mi sento un’aliena in questo mondo opportunista, violento, egoista, in cui l’appartenenza politica è più importante del talento se si vuole fare l’artista. Palermo per me è una città difficile, mi mette paletti. Certo, sono impulsiva, cerco di smussare i miei difetti ma per fortuna sono ottimista e trovo sempre qualcosa di positivo nelle persone che incontro.
Quali pittori del passato e contemporanei preferisci?
Masaccio, Antonello da Messina, El Greco, Goya, Braque, Morandi, Rodin, Carla Accardi, Aldo Pecoraino (primo periodo), Pistoletto, Cattelan, Tracy Emin. Non amo l’iperrealismo, il virtuosismo fazioso, mi infastidisce l’arte inautentica, non mi piace troppo il minimalismo, il tecnicismo nelle arti in genere, anche nella danza è così. Mi piace l’idea, la casualità, l’improvvisazione, l’intuito e la sorpresa.
Tra Matisse e Picasso con chi vorresti dipingere e perché?
Con Picasso per i suoi occhi, il suo sguardo aperto sul nuovo, le sue magliette a righe, il suo metamorfismo e velocità di cambiamento, il suo sorriso elettrico e la sua capacità di trarre ispirazione da altre culture. Ma anche con Matisse per la sua linea sinuosa e colori vivaci, capace di inventare mondi, ambienti, corpi leggeri e danzanti nel tempo e nello spazio.
Quanto incide il tuo vissuto personale, incontri, esperienze, relazioni ecc. nei soggetti delle tue opere?
Ho un vissuto turbolento, un rapporto conflittuale con mio padre, sono figlia di una famiglia numerosa complicata. Sono carica di contrasti e amore, insomma vivo ogni istante con la forza della leggerezza e ottimismo anche nei momenti più cupi.
Quali materiali e colori utilizzi?
Prediligo il colore ad olio, o miscugli di smalti e altro su tela o vecchi supporti lignei stagionati, o tele di varie dimensioni non intelaiate, grandi carte da spolvero, manifesti pubblicitari. Mi piace tutto ciò che è usato, il riciclo, preferisco la rigenerazione di materiali quotidiani o di scarto, compresi tessuti, vestiti, tovaglie, eccetera. Cerco supporti che hanno un vissuto da rielaborare, sono da sempre ecosostenibile. Il vetro lo temo e prima o poi sperimenterò l’argilla.
Tra i tanti dipinti realizzati, quali ti rappresentano al meglio?
Soprattutto Studiare a Gambe all’aria, dipinto esposto a Palazzo Oneto di Sperlinga, acquistato da un magistrato, I love Bangladesh su grande formato e un autoritratto in salopette, Santa e gli orecchini di drago, Giuditta sognante e altre.
Sei donna, artista, madre e docente all’Accademia di Belle Arti di Palermo, ma come riesci a conciliare casa e lavoro?
Tanti sacrifici. L’ex marito comunque è stato presente nella gestione della famiglia. Ora sono divorziata non per mio volere, le figlie ora sono grandi e più indipendenti. Riesco a conciliare l’Accademia con la mia ricerca intimista, ma essere artista donna a Palermo è una dannazione, sono esclusa dai “salotti” e dagli intellettuali. La mia pittura passionale non viene considerata né da galleristi né da critici attivi nella mia città, insomma mi sento invisibile.
Se le tue figlie sceglieranno di seguire le vie infinite dell’arte, quali suggerimenti proponi a loro e anche alle tue studentesse e studenti che intendono intraprendere questo arduo percorso?
Che bella domanda, grazie per avermela posta. Suggerirei di seguire ciò che si ama incondizionatamente, solo così l’arte è autentica, nasce da una necessità di espressione del sé e di continuare a seguire il proprio percorso.
Cosa significa essere artista nell’epoca delle innovazioni suggerite dall’I.A. (Intelligenza Artificiale)?
Saper anche bleffare con la tecnologia, velocizzare i tempi, comunicare anche l’effimero, è comunque una opportunità di ricerca di nuove immagini e immaginari. Chi vivrà vedrà.