Dal 5 ottobre 2024 La Spezia apre al pubblico il suo nuovo CAMeC-Centro d’Arte Moderna e Contemporanea, restaurato, ampliato e con un nuovo allestimento.
Un centro destinato a diventare uno dei più interessanti poli di arte contemporanea. Nato dalla sinergia tra Comune della Spezia e Fondazione Carispezia, il centro valorizza, in maniera dinamica e originale, il suo grande patrimonio artistico permanente-oltre duemila opere- raccolte negli anni da donazioni di cittadini generosi e dal Premio del Golfo,
L’anima del nuovo percorso è il professor Gerhard Wolf, che ha pescato duecento opere dalla Collezione Cozzani e dal Premio del Golfo, distribuendole in sale e pareti in modo innovativo, colto e sofisticato. Wolf direttore del Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max Planck Institut dal 2003 e membro dell’Accademia delle Scienze e delle Lettere di Berlin – Brandenburg, ha una larga e profonda esperienza nell’arte contemporanea internazionale. Alto, magro, con vistosi occhiali e una piccola coda di cavallo grigia, gira tra le opere spiegando al pubblico i suoi criteri. Intanto la cronologia: che cosa si intende per contemporaneo?
Un concetto non facile, che il professore all’avanguardia tende a spostare in avanti: «Gli anni ottanta del Novecento sono già storici», dice. Il percorso comincia nei lontani anni Cinquanta per arrivare sino a oggi, con nomi noti e meno, di tutte le nazionalità, e opere affascinanti e importanti, non sempre note. E il percorso? «Non certo cronologico, come nei manuali». Ma per assonanze e affinità, confronti e opposizioni, libere combinazioni. Ma non certo arbitrarie, perché sotto questi vari accostamenti, non mancano rapporti reali, carteggi, incontri tra gli artisti.
Tutto con un senso dunque. Ci sono piantine e schede esplicative in ogni sala, utili per capire connessioni e incroci, oltre che per apprezzare la bellezza delle opere, pitture, sculture, disegni, serigrafie, fotografie, che si dipanano fitte dappertutto, nei primi due piani del Centro. All’inizio gli anni Cinquanta e Sessanta e, in una delle prime sale, una scultura in oro di Lucio Fontana si confronta con un’opera di Gordon Matta -Clark sul problema dei buchi, tagli e vuoti. «Gli anni Cinquanta e Sessanta furono quelli dell’Astrazione in Europa e Stati Uniti, mentre nei paesi dell’Est dominava il Realismo socialista di matrice sovietica. Ma gli approcci all’astrattismo furono molti, diversi, spesso in contrasto tra di loro. Un gran fermento, un clima febbrile, dopo i traumi del conflitto mondiale». Così un’opera dell’architetto svizzero Max Bill, protagonista dell’industrial design dialoga con una di Asger Jorn, artista danese, legato all’Italia: entrambe astratte, la prima è fatta da rettangoli colorati, la seconda con colori simili ma realizzata con uno stile opposto, pennellate pastose e libere. È solo uno dei tanti esempi.
Così passiamo attraverso Arte concreta, Arte ottica, Gruppo Cobra, con l’olandese Karel Appel e il poliedrico Enrico Baj e i suoi personaggi polimaterici, e tanti altri artisti che si portano dietro ricordi del Surrealismo o dell’arte giapponese. E poi, ecco l’Informale, che supera figurazione e astrazione e si sviluppa in Francia, a Parigi, per poi espandersi dappertutto. Ci sono Hartung e Fautrier, che furono premiati insieme alla Biennale del 1960: opere e biografie che si intrecciano. E poi c’è il Tachisme di George Mathieu, con pennellate e grovigli grafici. Ma siamo solo all’inizio di un complesso percorso che, con sorprese, arriva sino ai nostri giorni. Tutto da meditare, proprio come ammonisce appena si entra uno scritto a mano dal curatore riportato sul muro: «aprire guardare connettere gioire dialogare riflettere».