Parte da una serie di autoritratti dipinti allo specchio La danse des faux pas. Un rituel, (6 dicembre 2024 – 25 gennaio 2025), mostra personale di Nazzarena Poli Maramotti (Montecchio Emilia, 1987) presso A+B Gallery a Brescia. L’esposizione, accompagnata da un testo di Giacomo Mercuriali, si muove tra percezione e divenire, frammento e riflesso di sé.
L’incertezza posta dall’evento dell’errore non è vaga decadenza. Può condurre, invece, sulla via della novità improvvisa. Il fallimento, cantavano gli Afterhours, è di certo “un grembo”. Un’espressione figurata quanto mai felice per rendere conto di uno spazio contenuto, drammatico anche, che spiega, tuttavia, la freschezza di una generazione. La recente mostra di Nazzarena Poli Maramotti fa dunque dell’inciampo pittorico il passo necessario verso una profondità che, lungi dall’essere mera esecuzione, converte l’irresolutezza nel punto cardine di un agire.
I trenta autoritratti di piccolo formato (2024) affermano, pertanto, la possibilità di un’azione spesso inosservata, ovvero il motivo andante di una danza che apre e ritorna sulle orme di un viso tutto da riconoscere. La sua figura mai abbastanza nota, vista e ripetuta, eppure mai eguale, che varia nella stesura dalla raffinatezza di velature complesse (L’adiacente possibile. Autoritratto come presenza benevola), fino alla sintesi “veloce” dai toni bruni (L’adiacente possibile. Autoritratto di linee). Un rituale metodico, fedele, che se da un lato traduce in immagine dipinta una sorta di distanza tra ciò che si vede e ciò che si è, apre, al contrario e con una certa chiarezza, sulla dimensione altra di un medesimo soggetto.
Trovare ciò che non era considerato. Vedere, o iniziare a vedere “tutti i modi possibili” – mi diceva l’artista durante un breve colloquio – tutti gli orizzonti, “tutti i miei linguaggi” che si ampliano, che si ritrovano, ora perduti e ora svolti. Trovati, ma perché nati dall’intuizione di un modo ulteriore che nel suo metodo era già presente. Una pratica per “cercare di capire quel che sto facendo” – continuava –; è forse questa l’espressione di una necessità. È forse la necessaria consapevolezza di un’esperienza estetica che ad un certo momento sembra mettere da parte l’utile per tornare, appunto, sui suoi passi. Per imbattersi, entro un panorama più ampio, con l’evidenza costitutiva di un ordine pittorico che nei paesaggi appare vario e, al contempo, stratificato (Sotto il ciliegio; Oh tempo le tue piramidi!, 2024).
Una varietà non limitata, introduttiva per lo più, che permette di scorgere un passaggio, un’armonia visiva e unita pur nella differenza. La serie dei vasi di fiori ne sono l’esempio (2024). Che sia, perciò, ogni aspetto del suo lavoro un autoritratto? E che siano anche gli autoritratti stessi non solo gli espedienti per una obbligata celebrazione, ma, come ha scritto bene Giacomo Mercuriali, “tentativi di formazione”? Toccare, cercare di prendere e formare, dare forma, produrre, o pro-ducere. Portare in essere ciò che esiste. Altro, probabilmente, non si può fare. Per individuare, nella continuità alternata delle opere e degli autoritratti allestiti uno di fianco all’altro, l’evenienza di un varco che l’artista – riprendendo il biologo Stuart Kauffman – definisce “possibile adiacente”.
Ciò che è prossimo all’esistente, che vive di ricombinazioni e nuove conformazioni, che si rivela nel suo potenziale, nel potenziale possibile e di certo realizzabile. In questo senso l’errore e il fallimento, oppure il secondo termine come dichiarazione del primo, arrivano ad essere generativi nell’arte di Nazzarena Poli Maramotti. Attraverso una graduale scoperta che l’artista non ha paura di incontrare sulla tela. Poiché decisa a considerare anche la differente sfumatura, e non importa che sia minima, come parte di una traiettoria, di un senso che deve essere inteso come direzione. A partire dal più classico dei gesti, un autoritratto allo specchio (oggetto anch’esso dipinto in Ritratto allo specchio, 2024): il riflesso di un’esperienza pittorica che si concede l’esperienza implacabile del sé. Il sé costante, il sé uno e molteplice, “magia rituale del divenire” (Mercuriali).