
Dal 1° febbraio al 1° marzo, la Galleria Romero Paprocki presenta la mostra Le cose che non sappiamo, con tredici artisti italiani attivi tra l’Italia e la Francia che esplorano la tensione tra ciò che possiamo conoscere e ciò che ci sfugge, tra certezza e mistero. A cura di Rossella Traverso.
“Ci sono cose che sfuggono alla nostra comprensione, spazi inesplorati che abitano la soglia tra il visibile e l’invisibile. Le cose che non sappiamo si addentra in questa dimensione liminale, creando un dialogo tra le opere di tredici artisti italiani attivi tra Italia e Francia”, scrive Giorgia Aprosio nel testo critico della mostra che la Galleria Romero Paprocki si appresta a inaugurare a Parigi.
Intitolata Le cose che non sappiamo, l’esposizione riunisce tredici artisti italiani, attivi tra l’Italia e la Francia, che esplorano la tensione tra ciò che possiamo conoscere e ciò che ci sfugge, tra certezza e mistero. Attraverso pittura, scultura e installazione, Beatrice Alici, Andrea Barzaghi, Claudio Coltorti, Giuseppe Lo Cascio, Giulia Mangoni, Matisse Mesnil, Pietro Moretti, Lulù Nuti, Marta Ravasi, Luca Resta, Luca Rubegni, Erik Saglia e Sofia Silva decostruiscono i processi di conoscenza e pongono l’accento sull’immagine, sul segno, prima ancora che l’opera venga interpretata. Interrogano il mondo e l’invisibile con una consapevolezza tacita: le cose, per loro natura, sfuggono a una comprensione totale.
Attingendo di nuovo dal testo di mostra di Aprosio, leggiamo:
Esiste un percorso già tracciato, che siamo soliti intraprendere per comprendere la realtà, o almeno per avvicinarci ad essa. Massimo Cacciari lo riassume così: «Noi possediamo la cosa quando ne abbiamo l’idea» (Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004, p. 443). Questo processo solitamente inizia dal nome (ónoma), il primo segno con cui indichiamo e nominiamo le cose. Poi passa al logos, il discorso che ne definisce le proprietà con parole e concetti, e culmina nell’eídolon: l’immagine che rende finalmente visibile l’idea, prima solamente astratta.
Le opere in mostra decostruiscono questo processo, procedendo in qualche modo a ritroso. Non iniziano dal nome né dalla definizione: il loro punto di partenza è piuttosto l’eídolon, l’immagine, che si impone ai sensi prima ancora di essere interpretata.
L’arte, d’altronde, non esiste per possedere ciò che rappresenta, ma per interrogare. È una costruzione mentale, una rilettura, un atto che accetta in sé l’ignoto non tanto come un enigma da decifrare, ma come un campo fertile di meraviglia.


