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“Una brezza leggera” attraversa la Fondazione Memmo

Bianca Bondi, Pneuma, ph. Daniele Molaioli
Bianca Bondi,Pneuma , 2024 vetro, soluzioni saline, spago, piante artificiali, detriti, marmi policromi, prismi e parti di lampadario Dimensioni variabili Courtesy l’artista © Bianca Bondi, ADAGP, mor charpentier (Paris – Bogota) ph. Daniele Molajoli
In una brezza leggera, Conversation Piece, a cura di Marcello Smarelli, giunge al suo decimo capitolo. Organizzato negli spazi della Fondazione Memmo, il progetto, com’è noto, prevede un ciclo di mostre dalla cadenza annuale. Ognuna con un distinto tema di contenuto universale che, al contempo, si riallaccia specificatamente alla Capitale. Un progetto attraverso il quale osservare l’attività delle diverse Accademie Nazionali e tracciare quegli artisti che prediligono Roma come città d’elezione per la propria ricerca artistica.

In questo caso, il rimando di fondo della corrente esposizione è quello al Ponentino, il caratteristico vento che, nei mesi estivi, mitiga l’inclemenza del caldo. “Il più malandrino che c’hai” invocato da Rugantino per “faje dì de sì”. Ma anche al racconto biblico del profeta Elia, che incontra Dio in una brezza leggera (riferendosi alla creazione dell’uomo). Da qui, il titolo di questo nuovo capitolo allestito fino al 30 marzo.

Tuttavia, il titolo prende le mosse dalla domanda “le opere d’arte – considerate come soggetti – hanno un’anima?”, nonché dal valore allegorico che, intrinsecamente, incarna il vento, simbolo della vita, come pure della manifestazione divina. Un’anima, un soffio, che travalica la specie umana, sconfinando, perfino, nella sfera del non umano.

veduta dell’installazione, In una brezza leggera, Conversation piece par t X, a cura di Marcello Smarrelli, Fondazione Memmo, Roma. Ph. Daniele Molajoli

Attraverso un’inedita declinazione, gioco collettivo surrealista cadavre exquis, non più col disegno, bensì con la scultura, Enzo Cucchi insieme ad Andrea Anastasio, Francesco Arena, Marc Bauer, Elisabetta Benassi, Carlo Benvenuto, Domenico Mangano ha dato corpo all’opera collettiva Scirocca (2005), che sembra voler controbattere il vento romano, perché Scirocca è, al contrario, il vento caldo che colpisce la costa anconetana. Unendo, così, marmo, vetro, finanche fumo.

L’originale scultura, che apre l’esposizione, evoca i diversi elementi della natura e, quindi, della vita. Nella leggera installazione ambientale, quasi eterea, Pneuma (2024), Bianca Bondi accosta materiali diversi. Da contenitori di vetro riempiti di liquidi salini saturi, a fiori selvatici, rami, corde, frammenti di vari oggetti, scelti, principalmente, per la loro natura mutevole e trasformativa, capace, perciò, di evocare il ciclo della vita e la sottintesa transitorietà di qualsiasi elemento. Perché le corde che scendono dal soffitto, a cui sono legati gli elementi vegetali, si gettano nei recipienti che, il processo di risalita cristallizzerà.

Con un segno e con colori a metà tra il fumetto e le stampe di fin de siècle di lautreciana memoria, Vanessa Garwood, con l’installazione Give Me a Hand to Say Yes (2024), composta da un olio su tela e da un intervento pittorico su muro, esce dagli stretti confini della tela, invadendo lo spazio circostante e, quindi, espandendo le forme, conferendo loro una sovradimensione, come ridanciani e benevoli spiriti, sospinti dal vento. Intenti, però, in momenti comuni e personali, che, stavolta, trovano ispirazione dalle rappresentazioni della Tomba delle Danzatrici (IV sec. a.C) di Ruvo (Bari).

Di indiscusso impatto, sia per le tinte che per le dimensioni, è Hunches in Bunches (2011) di Richard Mosse. Tre gigantografie, accompagnate da sedici fotografie di medio formato, tratte dalla serie Infra, realizzata dall’artista nella Repubblica Democratica del Congo tra il 2010 e il 2015. Utilizzando la pellicola fotografica a raggi infrarossi Kodak Aerochrome, oramai fuori produzione, usata nel Secondo Conflitto mondiale per individuare le tute mimetiche dei soldati, in seguito impiegata in vari campi, tra cui quelli della mineralogia. Le grandi multinazionali hanno mappato, con questa pellicola, l’intero territorio delle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, al fine di individuare i minerali preziosi fondamentali per le nuove tecnologie. Con l’aberrante conseguenza, di comportare la forzata evacuazione di milioni di persone, per dar seguito ad una incontrollata attività di estrattivismo. E il fotografo, mediante i suoi scatti, ha documentato questi aspetti, altrimenti invisibili, mostrando la situazione di questi territori e dei suoi abitanti.

Sidival Fila Metafora Giallo 35, 2024 cotone dipinto con acrilico e cucito su tela, su telaio 35 elementi cm 240 x 14 ciascuno Courtesy l’artista e Fondazione Filantropica Sidival Fila, Ph. Daniele Molajoli

Volendo liberarli dall’originario significato, Sidival Fila riutilizza vari materiali per conferire loro nuovo significato e espressività. Infatti, riunisce varie opere, tra cui il grande polittico Metafora Giallo 35 (2024) nel quale, travi di legno e stoffe, fondono pittura e scultura. E, attraversando i vari ambienti, avvolti dalle diverse installazioni, si viene accarezzati da quella leggera brezza che percorre l’intera mostra.

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