
In questa nuova puntata di “Vucciria” incontriamo Sergio Daricello, e un progetto decisamente inusuale per la città di Palermo, SMODA. Ecco la nostra intervista
Sergio Daricello nato a Milano nel 1976 da genitori palermitani, dopo il liceo scientifico a Palermo e un inizio in Giurisprudenza, interrotti gli studi universitari, ha deciso di seguire la sua vocazione per la moda e si è trasferito a Milano per studiare all’Istituto Marangoni. Fashion designer freelance, e amatissimo professore di Fashion Design all’Accademia di Belle Arti Palermo, dove vive e lavora, Daricello negli ultimi anni ha conseguito una laurea triennale al DAMS per poi specializzarsi in lettere moderne con indirizzo filologico, il suo lavoro va oltre la moda: è un intreccio continuo tra ricerca storica con la sperimentazione estetica e volontà di condividere progetti in dialogo con il suo territorio all’insegna di una bellezza etica.
Sei nato a Milano e hai scelto di vivere a Palermo, perché, cosa ti è successo?
Nonostante i miei natali milanesi — città dove, dopo i diciannove anni, ho costruito la mia formazione accademica e una solida carriera all’interno di importanti aziende di moda — il mio legame con Palermo è sempre rimasto vivo. Qui ho trascorso l’infanzia e l’adolescenza, anni che hanno radicato in me un senso profondo di appartenenza. A un certo punto ho scelto di avviare un progetto personale e, per sostenerlo, ho iniziato a lavorare come freelance per diverse aziende internazionali. È stato durante un soggiorno a Istanbul, mentre collaboravo con un’azienda locale, che qualcosa è cambiato: ho sentito riaffiorare con forza la mia identità mediterranea. In quella città così densa di storia e contrasti, ho ritrovato una familiarità che mi ha riportato a Palermo. Quelle affinità mi hanno spinto a fare una scelta non facile dal punto di vista pratico, ma profondamente coerente dal punto di vista umano e creativo. Così mi sono trasferito, pur continuando a viaggiare spesso, sempre con la valigia pronta. Qualche tempo dopo, su suggerimento di due amiche, partecipai — senza troppe aspettative — al concorso per la cattedra di Fashion Design all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Me ne dimenticai, finché, una sera, mentre ero in Cina per una consulenza, ricevetti incredulo la notizia di averlo vinto. È stato un momento che ha segnato una svolta. Oggi continuo a lavorare come consulente e ghost designer per aziende moda, ma soprattutto accompagno i miei studenti in quel passaggio delicato e complesso che li porta dal sogno al mestiere. È stata una scelta impegnativa, ma ogni sforzo ha avuto senso.

L’Associazione Culturale Punta Comune, con il patrocinio del Comune e in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Palermo, ha organizzato il progetto SMODA per quali obiettivi?
Per valorizzare il patrimonio culturale urbano attraverso le declinazioni della bellezza attraverso la moda e i linguaggi dell’arte e della tecnologia. Quest’anno SMODA si è appropriata delle scalinate monumentali del Teatro Massimo, simbolo potente della città, trasformandolo in una passerella urbana e in un palcoscenico di lotta creativa. Abbiamo organizzato una sfilata immersiva e coinvolgente, animata da performance, arte digitale, musica e un video mapping capace di trasformare il teatro in un corpo vivo e pulsante, veicolo di una narrazione visiva contro la guerra, contro i potenti – anche quelli dell’industria della moda – per un nuovo immaginario di pace, inclusione e resistenza artistica. Protagonisti dell’edizione 2025 sono stati gli studenti del corso di Progettazione della Moda dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. Abbiamo presentato una collezione collettiva che riflette un lavoro importante: quello di prendere le distanze da certi cliché legati alla loro provenienza geografica e avvicinarsi a linguaggi sperimentali più ampi, internazionali, radicali. Anche quando è presente un riferimento alla Sicilia, esso viene filtrato, decostruito e rielaborato con consapevolezza critica, per evitare ogni forma di folklore e dare spazio a una visione nuova, aperta, cosmopolita. I capi in passerella sono il frutto di una ricerca sul corpo, sui materiali alternativi e sul gesto progettuale come espressione artistica e sociale. Niente abiti da sera nel senso convenzionale, bensì costruzioni estetiche ibride e coraggiose. Insceniamo un racconto politico, come critica sociale e sogno collettivo. Dobbiamo abituarci al futuro, alle contaminazioni, al superamento dei confini – non solo geografici ma mentali. Se non riusciamo ad accogliere ciò che ci è “altro”, rischiamo di restare prigionieri di visioni sterili e autoreferenziali. SMODA 2025 va oltre la sfilata: è un dispositivo performativo, un laboratorio a cielo aperto in cui la moda diventa linguaggio e attivismo, estetica e presa di coscienza. Un atto poetico e politico, che porta in scena il desiderio di cambiare lo sguardo, anche attraverso l’abito.
Lo slogan di SMODA è: una moda che non consuma ma costruisce, che non chiede il permesso. Una moda che accende le coscienze, come e dove ?
Lo slogan di SMODA ci rappresenta in pieno: “una moda che non consuma ma costruisce, che non chiede il permesso”. È una dichiarazione di intenti, ma anche una pratica concreta. Quello che stiamo cercando di fare, ormai da anni, è restituire alla moda la sua forza originaria: quella di generare senso, di far riflettere, di muovere qualcosa dentro. Non si tratta solo di abiti o di estetica. Costruire, per noi, vuol dire costruire visioni, relazioni, consapevolezze. Significa usare la moda come linguaggio per dire chi siamo, da dove veniamo, e soprattutto dove vogliamo andare. E non chiedere il permesso vuol dire rifiutare l’idea che ci siano spazi, stili, modelli già dati a cui dobbiamo adattarci. Per questo abbiamo apprezzato il fatto che per Smoda venisse scelto un luogo simbolico e potente come il Teatro Massimo: non per imitarne la monumentalità, ma per attraversarlo, trasformarlo, viverlo diversamente. Accendere le coscienze, infine, è quello che proviamo a fare ogni volta che coinvolgiamo gli studenti in un progetto collettivo che li spinga fuori dai cliché, lontano dalle scorciatoie del “già visto”. Lo facciamo con materiali riciclati, con corpi reali, con gesti non convenzionali. Ma soprattutto lo facciamo lasciando spazio a un pensiero critico, a una libertà creativa che non è mai gratuita, ma sempre profondamente connessa al presente che viviamo. Ecco perché SMODA non è più di una sfilata, è un invito a guardare meglio, a pensare di più e a costruire senza paura.
Proponete un attivismo sociale, urbano e collaborativo, ma a Palermo funziona o sono solo parole ?
È una domanda legittima anche se forse troppo superficiale, soprattutto in una città come Palermo, dove spesso la presenza dello Stato è più simbolica che concreta. Una città in cui, al posto di politiche strutturali e visioni lungimiranti concrete , troviamo troppo spesso dei proclami e degli assistenzialismi che si intrecciano con l’ignoranza, alimentando dipendenze culturali e svuotando ogni spinta al cambiamento. In questo contesto, parlare di attivismo non è una posa, ma una scelta difficile. E la difficoltà non è solo fare le cose – trovare spazi, risorse, alleanze – ma è prima di tutto crederci. Crederci davvero. Ogni giorno. E voler combattere quella sfiducia diffusa che ti suggerisce che tanto niente cambierà, che tutto è destinato a restare com’è. Noi, invece, scegliamo di insistere, e non da soli. SMODA è la prova concreta che si può fare rete, si può fare bellezza, si può fare politica attraverso la creatività. È un attivismo urbano perché prende i luoghi e li trasforma; sociale, perché parla delle ferite e delle ingiustizie che viviamo; collaborativo, perché mette insieme persone diverse che condividono la stessa urgenza. Sappiamo benissimo che non basta una sfilata per cambiare le cose, ma sappiamo anche che ogni gesto coerente, ogni progetto collettivo, ogni atto artistico che non si piega al sistema, è già una crepa, è già una forma di resistenza. Quindi no, non sono solo parole: è fatica, è visione, è ostinazione. In una città che spesso ti spinge a lasciar perdere, il corso di Progettazione della Moda di ABAPA sceglie di non farlo.
Hanno partecipato a SMODA 2025 40 stilisti –designer palermitani, quali sono stati i criteri di selezione dei partecipanti ?
SMODA 2025 non è un evento vetrina, bensì un progetto formativo, politico e culturale. Per questo motivo la selezione dei partecipanti non è avvenuta secondo logiche di competitività o curriculum, ma attraverso un processo condiviso, all’interno del percorso didattico del corso di Progettazione della Moda dell’Accademia di Belle Arti di Palermo. I designer coinvolti sono studenti che, durante l’anno accademico, hanno dimostrato non solo competenze tecniche e capacità progettuali, ma anche una reale adesione ai valori del progetto: impegno, visione critica, disponibilità al lavoro di gruppo, desiderio di sperimentare e mettersi in discussione. Non abbiamo cercato “il talento isolato”, ma piuttosto un coro di voci differenti, capaci di costruire una narrazione collettiva coerente e radicale. Ogni partecipante ha contribuito con la propria sensibilità e il proprio immaginario a un progetto unitario, dove le differenze non si cancellano ma si armonizzano. La selezione, quindi, è stata il frutto di un processo di maturazione e confronto continuo, basato sul merito, sulla motivazione e sul rispetto reciproco. Non si entra a SMODA per esibire sé stessi, ma per far parte di qualcosa che ci riguarda tutti.
Dal 2015 sei docente di Progettazione della Moda all’Accademia di Belle Arti di Palermo, hai coinvolto anche i tuoi studenti per il progetto SMODA?
Sì, assolutamente. SMODA 2025 nasce anche come estensione naturale del percorso didattico del corso di Progettazione della Moda. Non è un evento separato, ma parte di un processo formativo più ampio, dove la moda non è solo disegno e confezione, ma anche linguaggio, pensiero critico e responsabilità sociale. Ho coinvolto studenti del triennio e del biennio specialistico, selezionati in base alla loro motivazione, al percorso svolto durante l’anno e alla capacità di lavorare collettivamente. Ciascuno di loro partecipa alla creazione di un capo che sarà parte di una collezione corale, pensata non come una somma di esercizi individuali, ma come un racconto condiviso. I ragazzi hanno progettando abiti che parlano del presente, del corpo, dell’ambiente, della fragilità e della resistenza. Utilizzano tessuti riciclati, sperimentano materiali alternativi, si confrontano con tematiche urgenti e sono stati coinvolti anche nella regia del progetto, nella costruzione della performance, nella documentazione, nella comunicazione visiva. Perché oggi formare un designer vuol dire anche renderlo consapevole di tutte le dimensioni che la moda può attraversare. SMODA è per loro un banco di prova reale, ma anche uno spazio di libertà. E vederli prenderselo, con maturità e coraggio, è forse la cosa più bella che un docente possa desiderare.
Dove avete recuperato i tessuti riciclati per la confezione degli abiti e chi sponsorizza economicamente l’evento SMODA ?
Al momento, la verità è che SMODA si regge quasi interamente sull’autoproduzione. Sono gli studenti stessi a procurarsi i materiali, a reinventarli, a trasformarli in qualcosa di nuovo. I tessuti riciclati provengono da scarti, da rimanenze, da vecchi stock dimenticati, da abiti smontati o tessuti donati da familiari e conoscenti. È un lavoro che richiede inventiva, pazienza, capacità di adattamento – ma è anche un esercizio prezioso di progettazione etica. Dal punto di vista economico, non ci sono vere sponsorizzazioni. Le aziende locali, salvo rare eccezioni, faticano ancora a riconoscere il valore culturale e comunicativo di un progetto come questo. È difficile che qualcuno regali qualcosa, ancora più difficile trovare chi decida di investire in un progetto che non ha le luci patinate della moda commerciale, ma che lavora su valori più profondi e scomodi. Eppure, qualcosa si sta muovendo. L’interesse cresce, così come la visibilità. E speriamo che questo possa aprire nuove strade, nuove collaborazioni, nuove economie. Non cerchiamo favori: cerchiamo interlocutori coraggiosi, che credano in una nuova generazione, in una moda diversa, costruita con rispetto, visione e coscienza.

Tra i tanti luoghi incantevoli del centro storico di Palermo, mercati inclusi, SMODA ha sfilato sulla scalinata di Teatro Massimo, cosa rappresenta questa scelta simbolica?
Sfilare sulla scalinata del Teatro Massimo è una presa di posizione, non una scelta estetica. Non ci interessa l’effetto cartolina, né tantomeno il glamour da passerella turistica. Il Teatro Massimo è uno dei simboli più riconoscibili della città, il tempio della lirica, della monumentalità, della “grande cultura”. Portare lì SMODA, con le sue tensioni, i suoi corpi liberi, i suoi abiti che parlano di disobbedienza e cambiamento, significa rompere un codice, ridefinire un linguaggio. Quella scalinata diventa una soglia. Non un piedistallo, ma un attraversamento. Un luogo dove la moda – che solitamente esclude – diventa atto collettivo, inclusivo, politico. Scegliere quel luogo è anche un gesto di riappropriazione urbana. A Palermo, i luoghi del potere culturale, economico e sociale sono spesso distanti dalla vita reale. Questo evento invece vuole attraversarli, e abitarli in modo nuovo, li contamina con le voci di chi solitamente resta fuori. È un modo per dire: “Anche questo ci appartiene”. E poi c’è una bellezza profonda nel vedere quella scalinata invasa da giovani creativi, da idee, da corpi in movimento. È un’immagine che racconta una città che vuole essere altro, un’istituzione fatta da giovani leve che vogliono dimostrarlo. Una città che ha bisogno di simboli nuovi, ma che sa come trasformare quelli antichi in strumenti di resistenza e di futuro.
La moda palermitana indipendente da paradigmi milanesi o stranieri esiste? Chi sono gli stilisti emergenti più interessanti del momento?
Sì, esiste. Anche se non ha ancora la struttura, i mezzi e il riconoscimento sistemico di altri poli come Milano o Parigi, esiste una scena palermitana che si muove in modo indipendente, a volte sotterraneo, ma molto lucido. Non è una “moda di reazione”, né semplicemente “alternativa”: è una moda che cerca linguaggi propri, che parte dal territorio ma non vi si chiude, che rifiuta di essere una copia o una derivazione. Gli stilisti più interessanti? Ce ne sono diversi, ma sicuramente vale la pena citare Casa Preti di Mattia Piazza, che ha saputo fondere una forte identità visiva con un lavoro artigianale e narrativo raffinato, e Narré, un progetto che mette in dialogo la moda con la performance, il corpo e il linguaggio urbano, costruendo una ricerca estetica potente e mai scontata. Quello che accomuna queste esperienze è la volontà di parlare da Palermo, non per provincialismo, ma per radicamento. E al tempo stesso, la capacità di non farsi definire da una sola appartenenza. Sono progetti che dialogano con l’estetica contemporanea, con le culture queer, con le tensioni sociali del presente, senza mai cedere alla decorazione fine a sé stessa .La moda indipendente palermitana forse non ha ancora un nome unico, ma ha già molti volti e molte voci. E se si continua a proteggerla, sostenerla, alimentarla con strumenti e spazi adeguati, potrebbe diventare una delle narrazioni più originali del nuovo Sud.
Hai collaborato agli esordi con Dolce&Gabbana, perché rappresentano Palermo, la cultura del Mediterraneo, il Sud Italia con i loro pizzi e merletti noir?
Dolce & Gabbana ha saputo dare al mondo un’immagine potente, sensuale e riconoscibile della cultura mediterranea, facendone un linguaggio di successo internazionale. Sono fiero di aver collaborato con loro agli esordi della mia carriera: è un’esperienza che mi ha insegnato moltissimo, che mi ha restituito la mia Sicilia con una nuova consapevolezza e mi ha dato tutte le basi professionali che porto avanti ancora oggi. Ma allo stesso tempo, credo che ogni narrazione estetica – anche quella più affascinante – abbia bisogno di evolvere. Penso, ad esempio, a Cristóbal Balenciaga: anche lui ha portato nella moda tutta la sua Spagna, con la sua austerità, il suo barocco, la sua liturgia, la sua forza iconografica, ma ad un certo punto quella Spagna l’ha fatta crescere, l’ha fatta esplodere dentro una forma di sperimentazione radicale, aprendola a nuove forme, a nuovi volumi, a un’astrazione quasi spirituale. Ecco, io credo che anche noi che veniamo dal Sud, da Palermo, da una terra ricchissima di simboli e tradizioni, abbiamo il diritto e il dovere di fare lo stesso: di portare con noi la nostra cultura, ma senza trasformarla in un “reperto antropologico”. Non rinnego i pizzi, il barocco, il teatro dell’identità mediterranea. Anzi, li amo e li rispetto profondamente. Ma penso che vadano integrati, mescolati, decostruiti e ricomposti in modi nuovi; l’identità, se non si muove, si trasforma in maniera e a me interessa un’identità viva, che dialoga con il mondo, che ha il coraggio di trasformarsi.

Le stragi Falcone/ Borsellino a Palermo sono servite a qualcosa, hanno cambiato la testa dei palermitani? Cosa hanno provocato questi drammatici eventi nelle menti di giovani che non erano nati all’epoca delle stragi di Mafia?
Quelle stragi hanno spezzato la storia di Palermo, lasciando una ferita che non si rimargina, ma che ha generato consapevolezza. Dopo il sangue e il silenzio, molti hanno iniziato a scegliere: dignità o rassegnazione, memoria o oblio. Palermo ha reagito, almeno in parte. Ha trasformato il dolore in impegno, nelle scuole, nelle strade, nei gesti quotidiani di chi ha deciso di restare e cambiare le cose. Ma non è una città salvata, è una città che resiste. Quando vivevo a Milano, e vedevo in TV le commemorazioni, sentivo addosso un senso di colpa profondo, mi chiedevo cosa ci facessi lì, lontano. Milano mi aveva accolto, mi dava lavoro, opportunità, ma io mi sentivo diviso. La mia città chiedeva presenza, e io non potevo rispondere per ovvie ragioni. Quelle immagini mi bruciavano dentro. Oggi ii giovani che non erano nemmeno nati all’epoca, vivono il peso e l’eredità di quei fatti, ma non tutti. Ci sono ancora ambienti dove la mafia non è un nemico, ma un mito; dove certi valori si dissolvono nel vuoto lasciato dallo Stato. Perché lo Stato è ancora troppo assente e questa assenza è rumorosa, ingombrante, come se vivessimo ai margini di una nazione che ci guarda da lontano e ci considera come una colonia. Eppure, nonostante tutto, qualcosa è cambiato. Palermo non è più la stessa. Ogni ragazzo che sceglie la strada della cultura, della legalità, della libertà, è una risposta viva a quella violenza. E io, da docente e cittadino, sento ogni giorno il dovere — e il privilegio — di continuare a costruire su quel terreno fragile ma necessario.

SMODA può costruire un sistema di produzione valoriale non “mafiosa ” e la cultura della trasparenza?
Credo che tutto cominci da un cambio di sguardo. La mafia, oggi, non è solo una struttura criminale organizzata: è anche un modo di pensare. È la cultura del favore, del silenzio, della scorciatoia. È un sistema mentale che, purtroppo, in molte aree dove lo Stato è stato assente o indifferente, è stato considerato “normale” per troppo tempo. Per costruire un sistema produttivo sano, alternativo, non mafioso, bisogna prima smontare questa “normalità” e proporre un nuovo immaginario. Significa parlare di lavoro non come sfruttamento, ma come dignità. Significa mostrare che si può creare valore restando onesti, che la bellezza di un’impresa risiede nella sua trasparenza, nella responsabilità sociale, nel radicamento comunitario. Ai miei studenti cerco di trasmettere questo: che progettare non è solo un gesto creativo, ma anche politico e civile. Ogni volta che disegnano una collezione, un oggetto, un sistema produttivo, stanno anche scegliendo dei valori. Li invito sempre a chiedersi: chi lavora dietro questo prodotto? In quali condizioni? Quali relazioni mette in moto? Per chi è pensato? Ma non basta dire “no alla mafia”. Bisogna anche dire un forte “sì” a un altro modello, più giusto, più trasparente, magari più lento, ma decisamente più solido. Per questo è essenziale mostrare esempi virtuosi: cooperative nate su terreni confiscati, aziende siciliane che praticano economia etica, reti di giovani che hanno deciso di restare e costruire. Esistono, resistono e dimostrano che un’altra strada è possibile. E poi c’è un lavoro ancora più sottile, ma cruciale: liberare le nuove generazioni dal fascino del potere facile, dell’arroganza, del “farsi strada” a ogni costo. Certi modelli di successo sono ancora permeati da quella cultura. Invece bisogna affermare con forza che il coraggio non è solo ribellarsi, ma anche restare umani. Che la vera forza sta nel non piegarsi, nel costruire reti sane, nel dire “io faccio bene il mio lavoro, e lo faccio alla luce del sole”. Ma tutto questo non potrà funzionare pienamente finché lo Stato non farà la sua parte fino in fondo. Le politiche antimafia devono essere effettive, concrete, realmente attuate. Non possono fermarsi ai proclami o alle commemorazioni. Devono diventare strumenti operativi, capaci di generare opportunità vere, sviluppo sostenibile, infrastrutture e presenza reale sul territorio.Educare a un sistema non mafioso, in fondo, significa educare alla complessità, alla responsabilità, al lungo periodo. È fare i conti con le ferite, con i vuoti, con le contraddizioni. Ma è proprio in quei vuoti che può nascere qualcosa di nuovo. Se diamo ai giovani fiducia, strumenti, spazi, e soprattutto esempi concreti, allora sì, possono davvero cambiare le cose. E non con le parole, ma con i fatti.
Tra gli abiti realizzati quali ti sembrano più “ palermitani ” autoctoni e indipendenti da modelli “continentali”?
Francamente, trovo che questa domanda contenga una premessa che oggi non ha più molto senso. Parlare ancora in termini di “modello continentale” come contrapposto a un’identità “palermitana” rischia di riproporre categorie che i giovani designer – per fortuna – stanno già da tempo superando. Gli studenti che partecipano a SMODA non si muovono per imitazione né per contrapposizione. Il loro è un lavoro critico e consapevole, che parte sì da un legame con il proprio contesto, ma non si lascia imprigionare da esso. Non cercano di essere “palermitani” in senso pittoresco o folklorico, e non hanno bisogno di esibire la propria territorialità per legittimarsi. Semmai, oggi, la vera sfida è quella di produrre linguaggi che siano al tempo stesso situati e globali, radicati e capaci di dialogare con il mondo. Alcuni lavori contengono tracce, suggestioni, codici che potrebbero rimandare a una certa identità mediterranea, ma sono sempre rielaborati con lucidità e libertà, mai come marchio da ostentare. In fondo, è proprio questo il senso di SMODA: permettere a chi crea di farlo senza etichette, senza dover rientrare nei recinti del “locale” o del “continentale”. La moda, qui, non è né folklore né imitazione: è una pratica autonoma, a volte coraggiosa, e che cerca di spostare lo sguardo altrove.

La stampa locale, Rai regionale inclusa, segue l’evento SMODA, oppure vi snobbano perché non rientrate nel solito folklorismo territoriale?
Diciamo che forse non siamo esattamente “facili da incasellare”, e questo può rendere il nostro racconto meno immediato per chi si aspetta sempre la solita narrazione da cartolina. Non ci interessa rincorrere l’idea pittoresca di Palermo: né il folklore, né le grandi feste popolari riverniciate per i turisti. SMODA parla un’altra lingua, più complessa, più tagliente, più urgente. A volte questo ci rende meno appetibili per certi canali, abituati a format più prevedibili. Ma non ci viviamo come uno svantaggio. Anzi: è anche da queste scelte che si misura l’autonomia di un progetto. Detto questo, negli anni l’interesse è cresciuto. Alcuni media locali e nazionali, giornalisti sensibili e attenti, hanno capito che SMODA non è una parentesi eccentrica, ma un segnale forte di come la creatività giovanile e la moda contemporanea possano diventare strumenti di riflessione sociale, urbana, culturale. Se poi c’è un “ufficio stampa” che se ne occupa? Forse sì, magari no. Ma la verità è che quello che facciamo parla da sé. E chi ha voglia di ascoltare, prima o poi, ci trova. Anche se non indossiamo le maioliche.
Quali sono le maggiori criticità superate per la messa in scena di questa sfilata che dovrebbe essere il simbolo di rinascita culturale e creativa di Palermo, oltre i soli cliché?
Oltre quelle burocratiche la potenza delle menti giovani ha abbattuto le barriere.
Il tuo sogno nel cassetto per Palermo ?
Che Palermo possa finalmente credere in se stessa senza più oscillare tra nostalgia e rassegnazione. Che, rispettando profondamente il suo DNA – fatto di stratificazioni, contrasti, genialità e bellezza – trovi il coraggio di andare avanti, di crescere senza snaturarsi. Sogno che il settore moda possa uscire dalla marginalità e svilupparsi come impresa culturale e produttiva reale, le associazioni di settore ci tentano, si sforzano, ma a causa dei problemi di cui sopra non sempre l’efficienza fa rima con efficacia. Che nascano poli creativi veri, laboratori, filiere etiche e sostenibili, dove il talento possa restare e non essere costretto a partire. Sogno che lo Stato smetta di gestire il Sud con logiche ottocentesche, abbandonando l’assistenzialismo e quei progetti stanchi, figli di una mentalità giolittiana, che non fanno altro che tamponare senza costruire. Vorrei invece che venisse data la possibilità concreta a chi ha idee, visione e competenze di creare. Di fare impresa, di restare, di lasciare un segno, e perché no, anche di tornare (dopo aver imparato) e di poter costruire fiducioso di avere tutele per un’evoluzione futura. Perché Palermo non ha bisogno di elemosine, ma di fiducia, ma soprattutto di infrastrutture e politiche intelligenti e mirate alla crescita. Il mio sogno nel cassetto? Che tutto questo, prima o poi, non resti solo in un cassetto.













