
Le mostre servono a ricordare quando la memoria collettiva ha deciso di dimenticare: viaggio dentro “VIVONO”, al Centro Pecci di Prato
VIVONO è una mostra che non racconta solo l’arte, ma la vita e la morte. L’amore e la paura. L’Italia degli anni ’80 e ’90 che si trovò impreparata davanti all’HIV-AIDS, con le sue stigmatizzazioni, i suoi silenzi, la disinformazione dilagante. È un ritorno dentro una ferita che non si è mai chiusa davvero, ed è anche un atto di resistenza: riportare al centro chi la storia ha lasciato ai margini.
Il curatore Michele Bertolino e il comitato scientifico hanno costruito un’architettura fatta di corpi, parole, archivi e silenzi. Non c’è solo arte: ci sono documenti, manifesti, ciclostilati, poesie, filmati, voci. Ci sono le domande che allora – e forse anche oggi – nessuno voleva ascoltare: come si ama quando il tuo corpo diventa un rischio per l’altro? Che fine fanno rabbia e speranza quando ogni giorno porta via qualcuno? Nelle sale ci si muove tra tavole che parlano di Virus, Stigma, Cura, Tempo, Isolamento, Comunità, Festa, Affetto, Desiderio. E sembra quasi di attraversare un diario collettivo, una mappa dove ogni voce è una spina che ti punge e ti ricorda che stai guardando non il passato, ma qualcosa che pulsa ancora. Perché sì, queste opere, queste parole, vivono.
Gli artisti sono tanti, e insieme costruiscono un coro spezzato e potentissimo: da Nan Goldin a Keith Haring, da Robert Mapplethorpe a David Wojnarowicz, accanto alle voci italiane di Nino Gennaro, Patrizia Vicinelli, Francesco Torrini. Ognuno porta la sua carne, la sua rabbia, la sua gioia, il suo modo di gridare o sussurrare che la vita era lì, nonostante tutto. Tre sale monografiche si fermano su tre nomi: Vicinelli, Gennaro, Torrini. Qui la poesia diventa corpo, la casa diventa scena politica, l’amore diventa granata che esplode. Torrini firma i suoi quadri con il nome del compagno morto per non lasciarlo cadere nell’oblio. Vicinelli ti guarda negli occhi e ti restituisce il peso e la bellezza della parola fatta carne. Gennaro parla di mafia, di case popolari, di affetti condivisi come armi gentili.

E poi c’è l’archivio, costruito insieme a Valeria Calvino, Daniele Calzavara e i Conigli Bianchi: decine di tavole mobili su ruote che ti dicono che la storia non è finita, che si può ancora riscrivere, che forse è tutta da riscrivere. Accanto all’esposizione, dal novembre 2025 a maggio 2026, scorre una rassegna di film curata da Luca Barni, Bertolino e Matteo Giampetruzzi. Qui i titoli parlano da soli: Buddies di Arthur J. Bressan Jr., Partners di Ottavio Mai, Amore Tossico di Caligari, 120 battiti al minuto di Robin Campillo. Una controstoria del cinema che non teme di guardare in faccia la malattia, l’amore, la morte, la politica dei corpi.
E allora sì, a cosa servono le mostre? Servono a ricordarci che il museo non è solo un posto dove appendere quadri. È un luogo dove mettere in comune il dolore, la gioia, la rabbia, le assenze. Un luogo che ti dice: tu sei qui, loro sono qui, vivono ancora. Forse è questa la più grande vittoria del Centro Pecci e della “banda” di Stefano Collicelli Cagol: dimostrare che in Italia è ancora possibile fare mostre che non siano anestesia ma scossa elettrica, che non siano intrattenimento ma un atto politico, intimo e collettivo. Perché alla fine esci dal Pecci e ti porti dietro una voce che non ti molla più: “splatter my heart, honey / please”, la poesia di Massimiliano Chiamenti. Ed è come se qualcuno ti avesse chiesto di prenderti cura non solo della sua memoria, ma anche della tua capacità di amare, ricordare, resistere.
E questo è molto più di quello che la maggior parte delle mostre in questo Paese osa fare.














