Una piccola ma approfondita mostra di studio accompagna i visitatori alla scoperta dei segreti della pittura caravaggesca. Che a ben guardare si rivela anche un amaro ritratto dell’Italia contemporanea. L’evento, prodotto dal Comune di Milano e MondoMostre Skira, vanta prestigiosi prestiti dagli Stati Uniti, da Londra, e da numerosi musei italiani. A Palazzo Reale fino al 28 gennaio 2018.
Milano. A distanza di quattro secoli, l’anima del Seicento italiano, la sua rappresentazione più fedele anche da un punto di vista sociale, resta, nel bene e nel male, l’opera di quel Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610) che seppe intridere la sua pittura, oltre che di mirabile tecnica, anche di valore documentale dal punto di vista sociologico, ed egli stesso fu personaggio assai in tono con i paradossi dell’epoca; non disdegnava infatti le risse nelle bettole, il contrabbando di armi, il gioco d’azzardo e la minaccia armata. Dall’altro lato, una pittura intrisa di religiosità, e la conseguente adesione alla Controriforma, unica maniera per svolgere il mestiere nell’Italia dell’epoca. Aspetti appunto contraddittori, che tanta cattiva critica ha, in tempi recenti, cercato di spettacolarizzare, dimenticando come questa sua condizione non abbia niente di romanzesco, ma sia soltanto il triste specchio di un’epoca senza morale e soffocata dall’ipocrisia, nella quale si assiste al declino della civiltà rinascimentale e al mancato consolidamento della coscienza civile italiana, anche a causa dei vincoli della Controriforma. Non fu un caso se, in un’epoca del genere, Torquato Tasso finì nel baratro della follia, tormentato dal terrore della persecuzione, e soprattutto se Pietro Carnesecchi fu condannato al rogo e Bernardino Ochino fu costretto a lasciare l’Italia.
La mostra Dentro Caravaggio, curata da Rossella Vodret, è una di quelle rare occasioni che permettono al pubblico di apprezzare al meglio l’artista lombardo: pienamente condivisibile la scelta di restringere il campo a un numero non ampio di opere – ma comunque tutte di grande qualità -, affiancate da un innovativo ampliamento tecnico (con apparati multimediali dalle immagini radiografiche di ognuna delle opere) che permette di scoprire la genesi delle pitture, caratterizzate da un naturalismo dei soggetti che all’epoca costituì un’innovazione di ampia portata per la pittura italiana, così come lo fu quell’uso “soprannaturale” della luce e dell’ombra.
C’è una sorta di culto del corpo maschile, anche nelle sue sottili allusioni al pervertimento, che anticipa Pier Paolo Pasolini con quella ricerca della plasticità classica grondante per odori selvaggi; così come nel suo prediligere come modelli per i quadri, ragazzi di strada e prostitute, quelli che PPP chiamerà i ragazzi di vita. Quelli che, in altri contesti, avrebbero potuto diventare dei veri cittadini, anziché rimanere sudditi di un governo fra il rapace e il paternalista. Il naturalismo di Caravaggio si sofferma con perizia anche sui difetti dei modelli, l’armonia classica lascia il posto alla perfettibilità della realtà umana, con i suoi pochi splendori e le sue tante miserie, soprattutto morali, e per questo diviene più vera. Lo dimostra Ragazzo morso da un ramarro, direttamente ispirato alle orge omosessuali cui indulgeva il cardinale Francesco Maria del Monte, estimatore e mecenate di Caravaggio. Al di là della cornice classica che accompagna l’opera, si tratta quindi di un audace documento sui costumi morali della Curia, quella stessa che da secoli imponeva la sua influenza sulla Penisola impedendone di fatto l’Unità, e avendo il pressoché totale monopolio dell’istruzione. Eloquente, da questo punto di vista, La buona ventura (1593-95) una tela in cui affiorano le superstizioni di un popolo cristiano nella forma, ma ancora pagano nell’anima, incapace di resistere alla suggestione femminile di una giovane zingara (la cui sensualità affascinò anche Caravaggio, che non esitò a far salire nel suo studio un’indovina mendicante vista per strada, al fine di ritrarla), ingenuamente fiduciosi che qualcuno possa veramente predire il futuro. C’è una lussuria falsamente repressa nell’atteggiamento della ragazza, ben consapevole della sua capacità di “vender fole ai garruli clienti”, così come c’è spavalderia nel giovane cavaliere che sembra porre molta più fiducia nella spada che nelle sue capacità intellettuali. Un’opera che ispirerà, fra gli altri, Simon Vouet per la sua Buona ventura (1617), quando frequentava Roma assieme ai Bentvueghels olandesi.
Con la sua lussuria del martirio del corpo, la sua estasi contemplativa della morte, la teatralità religiosa di Caravaggio ha radici pagane, come pagana, di fatto, era la corte pontificia, con i suoi cardinali scettici e avidi di ricchezza e potere. E per il popolo, “educato” a forza di dogmi, il Paradiso non è qualcosa da conquistare eventualmente dopo una vita spesa in laboriose occupazioni, al servizio dell’intera comunità, come accade nelle società riformate; il Paradiso lo si ottiene per indulgenze, in tal modo perdendo buona parte del suo significato, così come la dottrina cristiana perde di rigore. E per indulgenze e accomodamenti si amministra uno Stato che non c’è. Nemmeno le aperture illuministe del Settecento riusciranno a rompere questa ignavia, che ancora oggi sopravvive.
In Europa, la lezione di Caravaggio ebbe fondamentale influenza sui pittori olandesi scesi in Italia e in particolare a Roma per apprendere alla sua scuola, studiandone le opere. Ma Jan Miel, Domenicus Van Wijnen, Jan Both (per citarne solo alcuni) impregnati di Lutero ed Erasmo, avevano a loro disposizione una società civile da immortalare sulla tela. Il Merisi doveva invece accontentarsi di una società assai più pittoresca. Per questo, crediamo sia fondamentale scoprire e capire Caravaggio non soltanto per quelle innovazioni che introdusse nella pittura, ma anche e soprattutto per ciò che, attraverso quelle tecniche, rappresentò sulla tela, e cioè il volto dell’Italia dell’epoca, moralmente assai misera, dove il vizio del potere corrompeva le classi più agiate, e il popolo si smarriva in una selva di lotte quotidiane per la sopravvivenza, non sempre contro la fame, ma anche contro i soprusi. Da faro della cultura europea (e quindi mondiale) tra la fine del XIV Secolo e la prima metà del XVI, nel Seicento l’Italia scadde a colonia spagnola, e conobbe una rapida involuzione sociale da cui, a ben guardare, non è più riuscita a risollevarsi completamente. Sfortuna volle che il regno di Madrid fosse, dopo Roma, il più formidabile campione della Controriforma che il Vecchio Continente potesse conoscere: la regressione del costume e della mentalità furono notevoli, e fatta eccezione per alcune isole felici (Venezia, e in maniera minore, il Piemonte), la coscienza civile italiana ne uscì indebolita; le signorie rinascimentali erano scomparse, e quelle superstiti non ressero all’urto della censura alla libera circolazione delle idee.
Scadde la vita politica italiana, e con essa quella civiltà cui il Rinascimento aveva dato avvio. La Napoli che Malaparte racconta ne La pelle, non è troppo diversa dalla Napoli e dalla Roma di Caravaggio, dove lenoni, puttane e pederasti incarnano il lato più sordido di un popolo abituato da secoli a vivere di carità e dogmi religiosi, “allevato” nell’ignoranza da sistemi di potere di stampo medievale; spettri che tornarono a infestare anche Firenze, Ferrara, Urbino, Milano, quei centri che nel Cinquecento avevano invece brillato di luce civile. E seguendo la china del tempo che unisce Caravaggio a Malaparte, si giunge, senza troppe sorprese, all’epoca nostra, dove Mafia Capitale è stato soltanto l’ultimo capitolo di una lunga tradizione di clientelismo e malversazione. I santi e i peccatori di Caravaggio sono il volto di un’Italia ferita e umiliata, che paga il suo stato d’inferiorità dovuto alla mancanza di uno Stato centrale, da cui scaturisce senso di responsabilità, orgoglio nazionale, rispetto della legge e volontà di lavorare nell’interesse comune. Consapevole o meno che ne fosse, Caravaggio riportò sulla tela il malessere (altrettanto inconsapevole) di quel popolo, su cui si era abbattuto, sciagurata folgore del destino, il fasto spagnolesco con il suo senso del sacro accompagnato da fatalismo e infingardaggine; uno stile che si traduceva in una politica allergica alle riforme sociali, all’istruzione, alle innovazioni agricole ed economiche in genere. Un’Italia che, per citare Leo Longanesi, viveva “fra l’acqua santa e l’acqua minerale”. Il teschio, simbolo della morte, compare spesso nelle tele di Caravaggio, ma non è, come per l’Amleto shakespeariano, oggetto di ragionamento sui limiti e le potenzialità dell’uomo; è soltanto un dato d’esperienza che il fatalismo porta ad accettare, perché nessuna scuola ha fornito agli italiani gli strumenti per costruire una società dove l’individuo possa essere artefice del proprio destino.
La tela di Caravaggio è una quinta teatrale dove da una tenebra spettrale sgorga una luce equivoca, sensuale, a tratti calda, a tratti inquietante; è la paradossale metafora della città di Roma, e dell’Italia tutta (dell’epoca e non solo), dove la ricchezza del potere brilla di colpevolezza su una massa a suo modo docile e ignara, che reagiva con indifferenza allo sfacelo civile, attenta soltanto a sbarcare il lunario, e che guardava con sottomessa ammirazione a quella nobiltà così sfarzosa, della quale cercava il favore con il clientelismo. Secoli di costume creano una mentalità, la medesima che, nel 2016, stava dietro Mafia Capitale, per restare alla stretta attualità; la dinamica del potere non è cambiata, così come la sua arroganza, e parallelamente, in perfetta simbiosi, non è cambiata l’acquiescenza della massa, ancora paga delle generose distribuzioni di panem et circenses di romana memoria. E anche se il panem è sensibilmente diminuito, è stato sufficiente aumentare l’offerta televisiva di partite di calcio.
Per queste ragioni l’opera di Caravaggio conserva tutta la sua amara attualità, si fa romanzo sociale di un popolo ancora oggi sottomesso, rifulge sinistramente di vizi e abiezioni che hanno incancrenita un’etica, e, in definitiva, spiega l’Italia più efficacemente di uno studio sociologico.