Ai Weiwei presenta a Palazzo Franchetti un’opera formalmente garbata ed elegante, che all’ormai trita metafora della gabbia affianca il retorico ammiccamento ai “tornelli”, di grande attualità a Venezia
Sì, lo sappiamo, l’opera non è stata creata appositamente per Venezia, essendo già apparsa lo scorso autunno in Central Park a New York come parte della serie di opere pubbliche Good Fences make Good Neighbors, “volta a una campagna di sensibilizzazione sul tema della crisi globale dei rifugiati”, specifica una nota. Eppure, scegliere di presentarsi sullo scenario lagunare collaterale alla Biennale di Architettura proprio con “Gilded Cage” consegna Ai Weiwei a sublimi ed insuperate vette di banalità e di retorica spiccia e soltanto furbastra.
Non è certo la prima volta che ci capita di rimarcare la parabola discendente tracciata dalla superficialità di un artista che qualche anno fa era visto come un guru dell’avanguardia socio-artistica, il cui relativismo ha via via messo a nudo la sua cura nell’inseguire le trovate comunicative più becere tralasciando l’equilibrio delle qualità intrinseche dei suoi lavori. Ma ora – nel momento storico che tutti conoscono – Ai Weiwei decide di presentare qui – a Palazzo Franchetti, con la Fondazione Berengo – un’opera formalmente poco più che garbata e elegantina, che all’ormai trita metafora della gabbia che tutti ci imprigiona affianca l’ammiccamento ai “tornelli” che pretendono di controllarci e che solo casualmente sono il tema principe a Venezia, con le polemiche contro il progetto di installarli all’ingresso della città. La misura della retorica diventata pelosa è ormai colma, e il suicidio creativo di un (grande?) ex artista è ormai compiuto…