Bruno Bischofberger, mercante di Zurigo, è stato uno dei grandi protagonisti dell’arte internazionale degli anni Settanta e Ottanta. Insieme a Leo Castelli è stato il gallerista che ha maggiormente influito sul mercato dell’arte di quegli anni. Mentre però Leo Castelli, triestino doc, influiva dall’alto della sua autorità storica e con uno staff di artisti come Jackson Pollock, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Cy Twombly, Roy Lichtenstein, Andy Warhol, ecc. Bischofberger doveva muoversi convulsamente tra Zurigo, St, Moritz e New York, in cerca sempre del blue chips.
Se Leo era l’immagine del buddha immobile aspettando che il mondo venisse a lui, Bruno era l’immagine della trottola che girava il mondo, alla caccia di artisti e collezionisti. Certo, il vero mercante tra i due era Bischofberger, mentre Leo era l’immagine stereotipata del gallerista che protegge i suoi artisti.
Bruno possedeva una bellissima casa a St. Moritz, proprio accanto a quella dell’avvocato Agnelli, dove talvolta mi ospitava con Helena. Con l’avvocato spesso si salutavano dalla finestra e poi insieme andavano al Circolo dello Sci, dove si ritrovavano numerosi miliardari di tutto il mondo. Un club della ricchezza noioso e borioso dove non si era ammessi se non presentati da un socio eminente.
Ricordo che mi presentò un signor Rossi della famosa ditta Martini&Rossi e il noto playboy Gunter Sachs, allora protagonista del jet set internazionale e suo fedele collezionista. La sola persona simpatica e autoironica in quel club per ultraricchi era Bruno Bischofberger.
Il circolo era frequentato dai soci appassionati di “skeleton”, una specialità allora esclusiva di St. Moritz. Si trattava di uno sport pericoloso, in cui un folle con la pancia sullo slittino e la testa in avanti, si lanciava a forte velocità in una pista di ghiaccio, rischiando di spaccarsi la testa a ogni curva. Allora lo skeleton si praticava solo a St. Moritz e i soci si opponevano che diventasse sport olimpico per mantenerne l’esclusività molto snobistica. Ebbene, Bruno era stato campione mondiale (di questo sport praticato da non più di cinquanta persone e solo a St. Moritz), mi pare nel 1959. Per questo era molto rispettato. Vendeva a gogò opere di Warhol (di cui era grande amico) e, successivamente, della Pattern Painting, poi di Schnabel e la Transavanguardia a quei miliardari i cui pur sostanziosi prezzi praticati allora da Bischofberger erano per loro come bruscolini. Mi disse anche che aveva venduto numerose opere all’Avvocato e all’armatore greco Niarchos, altro suo vicino di casa.
Un giorno senza preavviso me lo trovai in redazione a Milano, a quei tempi in via Donatello 36. Con i pantaloni alla zuava come i montanari di Appenzello, suo cantone di origine, dove da giovane gestiva una galleria di artisti naïf, mi presentò un imberbe biondiccio un po’ brufoloso Julian Schnabel. Dovresti fargli una intervista, mi disse. È un giovane molto interessante. Io avevo sentito parlare di Julian Schnabel ma non lo conoscevo abbastanza per poterlo intervistare. Lo feci più tardi a New York. Una bellissima intervista che poi Julian, con la sua tipica arroganza, volle rivedere e la mortificò facendola diventare un comunicato stampa. Julian nel suo film su Basquiat, che ebbe un ottimo successo, ritagliò un ruolo quasi da protagonista per Bruno Bischofberger, interpretato da Dennis Hopper.
La tomba del Faraone
Bruno, appena un artista appariva sulla scena di New York, acquistava tutta la sua produzione. Negli anni Settanta, oltre a Warhol, (Bruno mi confessò che per firmare il portfolio di grafica delle Marilyn in negativo, Warhol chiese il viaggio aereo in prima classe per lui e il suo staff – una decina di persone – e volle riservato anche tutto l’ultimo piano di un grand’hotel, pretendendo un congruo finanziamento per la sua rivista Interview, di cui di fatto Bruno divenne l’editore), Bischofberger acquistò tutta la Pattern Painting (Robert Kushner, Zakanitch) allora sotto i riflettori e facente capo a Holly Solomon, la gallerista cult di Soho, per qualche tempo referente di Bruno a New York. Dopo la Pattern Painting, che Bruno abbandonò al primo segnale di flessione del mercato, grazie a Annina Nosei, curioso e intuitivo personaggio italiano, moglie di John Weber, il gallerista dell’arte minimal e concettuale, conobbe Jean Michel Basquiat, affascinante ragazzo di colore pieno di genio e di droghe varie, che presentò a Andy Warhol, per una amicizia senza fine.
Bruno mi raccontava che spesso andava da Zurigo a New York in giornata. Partiva da Zurigo per Parigi alle 7 del mattino. Poi a Parigi alle 9 si imbarcava sul Concorde che dopo 3 ore lo faceva atterrare a New York alle 8 del mattino locali.
Ad attenderlo c’era una Limousine che per 200 dollari lo scorrazzava tutto il giorno negli studi degli artisti. Nel pomeriggio Bruno, con la sua limousine che lo riportava all’aeroporto JFK, riprendeva il Concorde per tornare in serata a cena con la famiglia a Zurigo. Anche per questo e per la sua fame di opere, Bischofberger divenne un mito. Bruno comprava solo artisti americani o viventi a New York (anche Francesco Clemente) ma ne acquistava a tonnellate, per poi liberarsene al primo segnale di debolezza del mercato. In ogni caso ogni artista di New York sognava di vedere arrivare davanti al suo studio la sua famosa Limousine bianca, che poteva fare la fortuna di ogni artista, ma anche dannarlo (Rodney Ripps, dapprima acquistato e celebrato da Bruno, poi abbandonato, sembra abbia tentato il suicidio). Nei suoi anni d’oro Bischofberger è stato il gallerista di Julian Schnabel e della Transavanguardia. Con il declino della Transavanguardia, forse per stanchezza, iniziò anche il declino della galleria Bischofberger, che rinunciò alla Fiera di Basilea e apriva la galleria solo su appuntamento.
Nel 2009 la Fondazione Agnelli ha celebrato Bruno Bischofberger con una mostra della sua collezione di arte e design. Nel 2015 Bruno Bischofberger, per rispondere alle grandi gallerie americane, inaugura, con una mostra di Miguel Barcelò, uno spazio, sempre a Zurigo, di duecentocinquantamila metri quadri. Sì, avete capito bene: di duecentocinquantamila metri quadrati è la Piramide che il Faraone Bruno Bischofberger si è fatto costruire per riporvi i suoi tesori e farsi seppellire con loro: la grande arte contemporanea, il suo amore primigenio, e il suo amore più recente, il design. Uno spazio restaurato da sua figlia Nina e da suo marito Florian Baier. E diretta dal giovane Magnus Bischofberger che all’ombra del grande padre vuole continuarne in qualche modo (ma in quale modo?) l’ambiziosa tradizione. Per ora la grandiosa costruzione, più grande di un aeroporto o cinque volte uno stadio, è una cattedrale nel deserto dove su appuntamento si può visitare questa splendida tomba dell’arte contemporanea.
Per scrivere a Giancarlo Politi:
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