Suspiria: Guadagnino, le donne e l’Autunno tedesco. La versione intellettuale dell’horror di Dario Argento (rischio spoiler)
È il film più chiacchierato degli ultimi mesi: Suspiria nella versione di Luca Guadagnino. Annunciato dallo stesso regista nel 2015, rimandato per le riprese e l’uscita di Call me by your name e finalmente uscito anche in Italia (dal 1 gennaio) dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia e l’uscita americana, lo scorso ottobre. La distribuzione non è stata fortunata come quella di Call me by your name, ma Suspiria è un film Amazon Studio, quindi -probabilmente- il suo ciclo vitale è stato pensato al di là della sala. La sua durata inoltre, 2 ore e 40 minuti, lo rende sicuramente un prodotto respingente per la programmazione dei multisala.
Quella della mitologia è una genesi lontana, il cult di Dario Argento del 1977 trova radici letterarie tanto nel Suspiria De Profundis di Thomas de Quincey quando in Mine-Haha ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle del drammaturgo tedesco Frank Wedekind (da questa novella anche un film del 2005 di John Irvin con Jacqueline Bisse e Eva Grimaldi, passato anch’esso alla Mostra del Cinema di Venezia). Da Mine-Haha l’idea della scuola di danza come vivaio per la perfetta vittima sacrificale, dal Suspiria De Profundis invece l’idea delle tre madri demoniache: Lacrimarum, Tenebrarum e Suspiriorum. De Quincey racconta che le tre sorelle gli sono apparse in sogno e le descrive una par una, il brano in cui “dà vita” alla Mater Suspiriorum è particolarmente interessante per capire il carattere dell’opera di Guadagnino, che fa un remake non tanto del film di Dario Argento (sebbene ne riprenda buona parte del soggetto per la prima metà del film) ma piuttosto dei semi e dalle intenzioni da cui l’opera è germogliata, facendola rifiorire in una nuova forma stratificata, ampliata e concettuale.
“La seconda delle sorelle è chiamata Mater Suspiriorum, Nostra Signora dei Sospiri. Non scala mai le nuvole, né si allontana sui venti. Non porta diadema. E i suoi occhi, se pur qualcuno potesse vederli, non sarebbero né dolci né astuti; nessun mortale saprebbe leggere in essi la loro storia; li troverebbe pieni di sogni morenti e relitti di estasi dimenticate […]. La sua è la sottomissione di chi non spera. Può mormorare, ma solo in sogno. Può sussurrare, ma solo tra sé nella penombra. Brontola, talvolta, ma solo in luoghi solitari, desolati come lei è desolata, in città diroccate e quando il sole è sceso al suo riposo. Questa sorella è la visitatrice del paria, dell’ebreo […]; di chi si è pentito ormai invano e sempre ritorna con lo sguardo a una tomba solinga che gli appare come l’altare demolito di un passato e sanguinoso sacrificio, altare su cui ogni offerta è ormai vana, sia per implorare il perdono, sia per tentare una riparazione”.
Per il suo Suspiria Guadagnino sposta l’azione da Friburgo alla Berlino degli anni ’70, sullo sfondo i tumulti degli attentati terroristici della RAF (Rote Armee Fraktion), lo spettro della Seconda guerra mondiale ancora vivo, il femminismo (Tremate, tremate, le streghe son tornate, recitano alcuni poster promozionali, come richiamo a uno degli slogan delle femministe italiane di quegli anni) e i movimenti artistici e culturali che ribollivano tra i ’60 e i ’70: l’arte concettuale, la body art, la performance. Ci sono i corpi uncinati di Stelarc, i pattern grafici di Sergio Lombardo, l’Azionismo viennese di Otto Mühl, orgiastico, sanguinolento e sabbatico, e poi ancora il corpo martoriato, vessato e umiliato di Rudolf Schwarzkogler, per finire (letteralmente) con le cascate di sangue di Hermann Nitsch. Il corpo rifratto di Carolee Schneemann è quello delle ballerine nella sala prove tappezzata di specchi. Su tutto aleggia il “fantasma” di Lea Vergine e del suo lavoro critico sulla body art.
Citazioni -più o meno esplicite- che rimandano a quel milieu culturale ribollente di rabbia, insoddisfazione, violenza e protesta politica, in cui il corpo diventa centrale in quanto simulacro dell’individuo che si ribella al capitalismo e alla dittatura delle repressione sociale.
È tutto un grande (e colto) “omaggio” all’Autunno tedesco del 1977 (anno in cui è ambientato il film) e -di conseguenza- a Germania in autunno, film corale del 1978 a firma degli undici cineasti del Nuovo cinema tedesco, tra cui Fassbinder (col segmento più lungo).
Non per niente tra le interpreti ingaggiate da Guadagnino ritroviamo Ingrid Caven, attrice feticcio, moglie e sodale di Fassbinder (L’amore è più freddo della morte, Il soldato americano, Il diritto del più forte, Il viaggio in cielo di mamma Kusters, Despair, Un anno con tredici lune), tra le streghe della congrega capitanata da Tilda Swinton (è lei a dar corpo sia a Madame Blanc, l’insegnante di danza dalle fattezze “alla Pina Bausch”, che a Helena Markos, la regina nera che regna dal sottoscala. La stessa Tilda interpreta inoltre un altro personaggio fondamentale del film, il Dr. Josef Klemperer; Es, Io e Super-Io – non necessariamente in quest’ordine). Alcuni dei rimandi più forti e evidenti sono quelli all’artista cubana Ana Mendieta, tanto che la fondazione che ha in gestione la sua eredità artistica ha fatto causa a Amazon Studios, facendo rimuovere alcuni frames (8 immagini in tutto) dalla versione finale della pellicola. Al centro della causa alcuni pezzi della serie Rape Scene del 1973 e alcuni del ciclo Siluetas.
Nel film fanno parte di tutta una serie di immagini che appaiono rapidamente in successione a formare i sogni con cui le streghe comunicano con la protagonista, un’onirica sequenza compulsiva che omaggia le artiste femministe degli anni ’70.
E in Suspiria non possiamo che ritrovare corpi che soffrono e che ballano: Mary Wigman, Pina Bausch e Martha Graham. Guadagnino, fedele a sé stesso, si immerge in un mondo fatto di sensazioni e sentimenti che si scontrano, estrae la storia, i ricordi e le emozioni dal 1977 e lascia danzare le sue streghe in un mondo di immagini che inneggiano all’arte femminista.
Questo Suspiria è, a suo modo, un horror malinconico, inquietante ma non pauroso, è più fisico ma meno efferato di quello di Argento, è più intellettuale e meno energetico. Entrambi guardano al passato, quello di Guadagnino al ’77 del Suspiria originale (non a caso), che a sua volta guarda indietro verso un mondo di favole nere le cui origini si perdono nel fondo della notte.Guadagnino però in questa operazione personalissima sovverte il finale: il male non viene respinto, sconfitto, ripudiato, ma anzi, viene cercato, desiderato e accolto. In questo discesa (anche letterale) verso le tenebre, non si avverte mai per la protagonista (la giovane Susie -Dakota Johnson- arrivata a Berlino scappando dalla madre, che la vede per l’anticristo che è, e dalla sua comunità mennonita in Ohio) una reale sensazione di pericolo, anzi, Madame Blanc cerca pure di proteggerla. Nella favola moderna di Guadagnino, Biancaneve abbraccia la sua parte più oscura e -come una vera femminista hardcore- si erge come nuova strega. Con questo plot twist però il film perde di mordente.
Il sospetto è che questa creatura cinematografica, tanto meravigliosa nell’aspetto, visivamente impeccabile, e creativamente stimolata (che sembra il risultato di un girato da Fassbinder ritrovato e montato da Park Chan-wook), sia anche autosufficiente, che non abbia in realtà bisogno di un vero pubblico, talmente compiuta dal non voler dialogare al di fuori di sé stessa.