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La “Madonna” di Dürer torna a Bagnacavallo dopo 50 anni

Mancava da 50 anni. La Madonna del Patrocinio di Albrecht Dürer torna a Bagnacavallo nella stessa sede in cui si trovava custodita fino al 1969, cioè l’ex monastero delle suore Clarisse Cappuccine, oggi museo civico.

Il dipinto, eseguito nel 1495, sarà esposto al museo dal 14 dicembre 2019 al 2 febbraio 2020. La mostra ‘Albrecht Dürer. Il privilegio dell’inquietudine’ propone nella città romagnola un approfondimento sulla attività grafica del pittore di Norimberga. Apre al pubblico il 21 settembre.

Albrecht Dürer, Madonna col Bambino, detta anche Madonna del Patrocinio, 1495, olio su tavola, 47,8 x 36,5 cm; Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca
Albrecht Dürer, Madonna col Bambino, detta anche Madonna del Patrocinio, 1495, olio su tavola, 47,8 x 36,5 cm; Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca

 

La scheda di Vittorio Sgarbi dedicata al capolavoro di Dürer conservato nella collezione permanente della Fondazione Magnani Rocca.

Proveniente dal Monastero delle Cappuccine di Bagnacavallo, istituito nel 1774, il dipinto è attestato presso quella sede dalla fondazione del convento. Rimase sconosciuto fino al 1961, quando don Antonio Savioli sul “Bollettino diocesano di Faenza” ne diede segnalazione, citando l’indicazione attributiva di Roberto Longhi ad Albrecht Dürer, basata su una fotografia. Il Savioli, per documentare l’antichità della presenza del quadro nel convento, ricorda una mediocre copia neoclassica, colà conservata, eseguita probabilmente per salvare il dipinto, certo tenuto in grande stima, dalle espropriazioni napoleoniche; ricorda inoltre che nella prima metà dell’Ottocento l’artista faentino Angelo Marabini ne trasse una debole incisione, sulla quale si legge la denominazione “Madonna del Patrocinio”, che indica una consuetudine devozionale di antica data. Il Longhi, che immediatamente dopo pubblicò il dipinto su “Paragone”, con l’accertata attribuzione al maestro tedesco, soggiunse alcune osservazioni sui restauri subiti dall’opera per denotarne le più remote origini: “L’uno, forse inteso ad ovviare gli effetti di una vecchia bruciatura, comprende un’intera ciocca della chioma ricadente sulla destra del volto della Vergine e, per la notevole perizia della esecuzione, mostra di essere stato condotto da mano ‘filologicamente’ addestrata e pertanto, direi, non prima del secolo dei ‘lumi’; l’altro, più che un vero restauro, è un’aggiunta che, provvedendo a mascherare certe parti del Bimbo, mostra di essere stata indotta da scrupoli moralistici post-tridentini e infatti, anche tecnicamente, denota il tardo Cinquecento.

Sarà dunque stato bene tramandarne notizia ed immagine prima che la giusta pulitura provveda a rimuoverla; anche perché gli scrupoli che la provocarono suggeriscono che già molto per tempo l’opera fosse entrata in un convento di clausura femminile, anche senza voler affacciare l’eventualità che essa fosse destinata per un ritiro emiliano piuttosto che per Venezia, città di cultura più libera e di meno stretta osservanza ‘tridentina’ “. Quando il dipinto, con il pieno consenso delle autorità ecclesiastiche e degli “uffici regionali delle Belle Arti”, giunse nella raccolta Magnani, si provvide alla “giusta pulitura” e le condizioni originali furono mirabilmente risarcite grazie a un intervento dell’Istituto Centrale del Restauro nel 1970. Nel saggio il Longhi conferma la sua prima impressione che la Madonna del Patrocinio sia stata eseguita dal Dürer al tempo del secondo viaggio in Italia, dal 1505 al 1507, tra Venezia e Bologna. Caratteristica del primo soggiorno italiano, nel 1495, è per il Longhi il rapporto con Mantegna, il Pollaiolo e gli squarcioneschi, “nella convinzione che in quel primo viaggio egli si appassionasse più a Bartolomeo Vivarini o ai ferraresi che al Bellini. Nell’altare di Wittenberg (a Dresda), del 1496, è impossibile non sentirsi richiamati a qualche squarcionesco ferrarese di seconda sfera, nel genere del Crevalcore: e nell’altare Paumgartner, già avvicinandosi la fine del secolo, è difficile non ammettere … che il Dürer avesse visto l’altare Roverella a Ferrara”.

Per quanto concerne il riferimento al Crevalcore, va detto, per inciso, della straordinaria premonizione del Longhi che, probabilmente pensando alla Sacra Conversazione, datata 1493, già nel Museo di Berlino, o alla più tarda Madonna di Stoccarda del pittore emiliano sembra prefigurare un’invenzione che sarebbe apparsa molto tempo dopo: mi riferisco ai tre grandi dipinti del Crevalcore provenienti dal castello di Etrépy, in uno dei quali la figura del San Paolo fu la fonte diretta di Dürer per il Sant’Antonio del trittico di Wittenberg. Si osservino l’inclinazione pensosa del volto e il libro aperto fra le mani: certamente una desunzione meditata. E non è da escludere che si trovino un giorno i disegni del Dürer dall’opera dell’artista bolognese. Nello scomparto centrale con la Madonna, il muretto ai due lati come inquadratura, la pera, l’uso della tempera rada, sono in relazione con analoghe invenzioni del Crevalcore e di Francesco del Cossa nei dipinti bolognesi (pala dei Mercanti). Il rapporto è notevole perché le tre opere del Crevalcore furono dipinte per Bologna, verso il 1480-1485, dove è quindi da presumere che il Dürer si fosse recato anche prima del secondo soggiorno italiano, e cioè tra la fine dei 1494 e gli inizi del 1495. Se questo conferma la ironica conclusione del Longhi: “Il fatto è che il grande artista di Norimberga aveva sull’arte italiana conoscenze molto più estese che non abbiano oggi i suoi esegeti”, riapre anche la discussione sulla datazione della Madonna di Bagnacavallo. Assunto infatti come riferimento cronologico del secondo soggiorno il Gesù fra i dottori della collezione Thyssen, che reca la data 1506, è difficile pensare che la Madonna di Bagnacavallo, cosi classicamente composta, come nell’Autoritratto del Prado del 1498, e così affine alla Madonna di Washington, forse di qualche tempo prima, sia dello stesso momento.

Con tutto ciò i collegamenti del Longhi vanno confermati, e forse anche l’insistente riferimento a Bartolomeo Montagna si accorda meglio con gli anni ’90, al tempo della maggior tensione stilistica dell’artista vicentino. E anche gli altri accostamenti del Longhi (per esempio quello ad Antonello) puntano su un tempo più precoce, ancora dominato dai principi quattrocenteschi piuttosto che dalla nuova lingua, prestissimo inaugurata, e quindi alla moda, tra 1503 e 1505, di Giorgione e del Lotto. “La impaginazione del gruppo divino è, alla prima, di taglio belliniano e antonellesco … una calibratura calma, ‘piramidata’, senza quasi nessun tratto eteroclito; un ovale dolcissimo nella Madre; una vivacità, ma regolata e quasi di calmo esercizio ginnico, nel corpo del Bimbo …. Chi conosce bene la pala di Cartigliano … potrà utilmente confrontare … ; è montagnesca persino la piega rilevata al centro della cuffia della Vergine a fine di partitura metrica. A questo punto dell’esame, però, già riappare l’altra faccia dell’opera in opposizione e quasi renitenza alla prima. La cuffia della Vergine, che s’è appena detta montagnesca, scende a coprire quasi tutta la fronte a guisa di benda monacale da ‘béguinée’ nordica come il Dürer aveva insistentemente usato nelle incisioni anteriori al secondo viaggio. Le spalle a cupola dei grandi e nobili corpi italiani si fanno strette e mancanti; la chioma a fili di rame brillanti si spartisce in un’asimmetria per noi incomprensibile, senza più rapporti con la sintassi italiana. Ma più ancora v’è da osservare nella intavolatura scenica dell’opera. In confronto alla scansione lucida dello spazio prescelta dai veneziani con un davanzale d’arresto per il gruppo regolato, un fondale d’appoggio con la tenda appesa e stirata fra due lontananze inondate di lume, il Dürer schiude avaramente il gruppo all’incidenza di una luce filtrante, che, subito dopo aver laminato tagliente lo stipite della finestra e scrutato nitidamente il bellissimo particolare del rametto di fragole nella destra del Bimbo, si va sperdendo sul fondo di pietrisco grigio, s’infosca nell’androne arcuato e sbiecato, per poi riaffiorare, ma d’altra fonte, nel cortile a mattoni rosso-bruni di nordico vescovado e tornare poi cautamente a sbalzare di riccioli e d’aculei il bocciolo del faldistorio, a guisa di carciofo rinsecchito; citazione o ricordo della bottega del padre artigiano di metalli”.

La luce di taglio osservata dal Longhi giunge fino ad accendere il cotto del muro che si intravede oltre il volto, passando lievemente sulle sbrecciature dell’intonaco e fermandosi a mandar riflessi come di rame sul culmine del bracciolo. Ma mentre la digradante cornice riluce come una lama affilata, in tutto il quadro, intimamente splendente, dominano i toni bassi, che fanno risaltare i volumi torniti del corpo del Bambino, come di metallo, ma senza perdere l’illusione della carne. L’esperienza incisoria di Dürer affiora nitidamente nel tratteggio, che rende l’impressione del non finito, come un sottofondo di preparazione, nella mano della Vergine. Tutto questo si compone in una misura di eletto classicismo che è lontanissima dal gusto caricaturale del Gesù fra i dottori, dalla festosa sovrabbondanza della Madonna del lucherino, anch’essa datata 1506, o dall’impasto tonale tutto veneziano del Ritratto femminile del Museo di Berlino; e tanto più dalla pala di San Bartolomeo a Rialto. La Madonna della Fondazione Magnani-Rocca può così convenientemente essere legata a un momento bolognese verso il 1495, fin qui non ipotizzato, ed essere appartenuta fin dall’origine allo stesso convento, in una preesistente sede, dove è stata ritrovata. In seguito al Longhi, pur essendo unanime l’accettazione dell’autografia, vari studiosi si sono pronunciati per una datazione anticipata. Per il Knappe la Madonna del Patrocinio non è paragonabile alle composizioni del primo decennio del Cinquecento come, per esempio, la Madonna del lucherino di Berlino. Già il vestito della Madonna indica un’epoca precedente. Egli afferma che l’opera, in cui sono in conflitto elementi gotici ed elementi italiani, deve essere stata concepita all’epoca del primo soggiorno a Venezia, nel 1494-1495. Lo Strieder, per parte sua, propone una data intermedia fra i due viaggi, 1497-1498. Segue il Longhi la Ottino della Chiesa indicando una datazione poco prima del 1507. Per una datazione anticipata (epoca del primo viaggio in Italia) si è pronunciato anche Köhler, pur riconoscendo che la testa del Bambino è molto vicina a studi realizzati all’epoca del secondo soggiorno. Il Ruggeri indica il 1495 circa.

Da ultimo Fedya Anzelewsky propone decisamente la data 1494 e un collegamento, per la figura del Bambino, a due disegni del Louvre e degli Uffizi. Quello del Louvre, in un foglio con altri appunti, tra i quali uno per l’incisione del Cavaliere, la Morte e il Diavolo, sembra un vero e proprio pensiero per il dipinto di Bagnacavallo; l’altro, degli Uffizi, forse tratto da Lorenzo di Credi, è assai affine per tipologia e, nel tratteggio e nelle lumeggiature, per caratteri formali, e reca la data 1495. Quella che appunto conviene al dipinto in esame.

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