Due storici dipinti di Michele Cammarano e Carlo Ademollo ritraggono i bersaglieri caricare per primi Porta Pia, segnando l’ingresso dell’esercito sabaudo a Roma. Ma alcune testimonianze oculari e ricostruzioni documentarie sembrano indicare il contrario.
Novembre 1870. Quasi 150 anni fa. A pochi giorni dall’impresa di Porta Pia, Pio IX emana l’enciclica Respicientes ea nella quale dichiara “ingiusta, violenta, nulla e invalida” l’occupazione di Roma.
Occorre qui un’annotazione: Carlo Ginzburg, nell’Indagine su Piero – edita da Einaudi – invita gli storici e gli studiosi di arte antica e moderna a collaborare per comparazioni approfondite nei contesti dove c’è carenza di documenti. Le due specializzazioni risulterebbero complementari e funzionali a una migliore comprensione di fatti ed eventi comunque assodati. Seguendo questa preziosa indicazione, che non esclude eventuali scantonamenti intuitivi, sottopongo qui ai miei lettori alcune possibili ipotesi intorno agli accadimenti romani del 20 settembre 1870.
La carica dei bersaglieri alle mura di Roma, realizzato nel 1871 dal pittore napoletano Michele Cammarano esposta a Napoli, al Museo di Capodimonte, è un’opera a olio su tela di grandi dimensioni, commissionata da re Vittorio Emanuele II per celebrare la conclusione definitiva del percorso risorgimentale, con Roma finalmente Capitale d’Italia. Dieci anni dopo e con identico taglio tematico – ancora su regia committenza – il pittore fiorentino Carlo Ademollo porta a compimento un’altra Breccia di Porta Pia, esposta al Museo del Risorgimento di Milano. Il Re muore prima di vederla realizzata, ma mi chiedo perché non abbia voluto scegliere uno scenario diverso, per esempio celebrando gli artiglieri del Piemonte; oppure gli scontri tra la fanteria Sabauda e quella del Pontefice.
Dato che è da escludere, per motivi biografici, la presenza di Camarrano e di Ademollo a Roma in quel fatidico 20 settembre, e data l’illustre committenza, i due pittori devono essersi cautelati e avvalsi di un meticoloso consigliere, conoscitore dei particolari dell’avanzare tattico dei bersaglieri. Nei due quadri essi appaiono varcare per primi la Breccia appena aperta dagli artiglieri.
E a proposito dell’artiglieria, è qui necessario citare un risvolto curioso: l’ordine di bombardare le mura di Roma lo emana il capitano Gualtiero Segre. Probabilmente è stato Giovanni Lanza, presidente del Consiglio Subalpino, a designare Segre per questo compito, e non a caso: Papa Pio IX, dopo la caduta di Napoleone III – sconfitto dai Prussiani a Sédan – ha perso il suo alleato più prezioso; ha quindi avvertito che, se mai il Re decidesse di sfondare le mura romane, comminerà una scomunica irreversibile al comandante piemontese che darà il comando di far fuoco contro lo Stato Pontificio. Per non sottostare all’imprevedibile minaccia, ecco la grande trovata: il capitano degli artiglieri sarà ebreo!
Fallita quindi questa ipotesi, si comprende meglio il senso dell’enciclica papale che ho citato all’inizio di questo scritto. E tuttavia ci si può chiedere perché il Papa non sia ricorso alla scomunica del Comandante del drappello di Bersaglieri, che in entrambe le composizioni pittoriche varca per primo la Breccia. Per altro, non è ritratto alcun comandante alla testa del drappello. La verità è che i bersaglieri non sono stati i primi a entrare in Roma. Lo si comprende prendendo atto della testimonianza diretta di Edmondo De Amicis, allora giornalista di 24 anni, inviato sul campo dal quotidiano La Nazione: Nella…”breccia vicina, aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto… Poi giunsero a passi concitati i battaglioni di bersaglieri della riserva…”
La tradizione ha però recepito le due composizioni come certezza documentaria, che tuttavia da circa 150 anni è divenuta mito nazionalpopolare. Lo ha persino codificato Paolo Villaggio, con nostro grande spasso, in Superfantozzi del 1986 dove viene rievocato il Corpo dei Bersaglieri in azione alla maniera di Cammarano e di Ademollo: I Bersaglieri abbattono il muro dell’alloggio del nostro sfortunatissimo eroe (Finalmente abbiamo una casa. A Porta Pia!!!) proprio mentre stappa gioiosamente una bottiglia di spumante per festeggiare.
A ben riflettere, e in un’ottica storica, i due quadri sono tasselli insignificanti rispetto alla crisi di quegli anni tra Stato e Chiesa. È dunque difficile immaginare Vittorio Emanuele II coinvolto in prima persona in faccende artistiche. Scartando quindi il suo ruolo di consigliere, penserei, come ho già scritto più sopra, a un altro suggeritore, identificabile, a mio parere, nel generale Alfonso La Marmora – già deputato da parecchie legislature, di sensibilità liberale, ministro della guerra sotto Cavour, Comandante in Capo delle truppe piemontesi nella guerra di Crimea, Primo Ministro del Governo Sabaudo, e in seguito Governatore della città di Roma. Nobile sabaudo, fedele alla Casa Reale, e moralmente impegnato a commemorare il fratello Alessandro. È probabile che Alfonso abbia diritto di affidare e gestire le due committenze, ben sapendo quanto il Re sia riconoscente nei confronti di Alessandro, stratega militare importante per la fondazione del Corpo dei Bersaglieri selezionato e addestrato per i combattimenti in prima linea. Inoltre è presumibile che Alfonso avverta qualche senso di colpa per la morte di Alessandro, al quale ha affidato il comando della seconda divisione dei Bersaglieri nella Guerra di Crimea; vicenda assai dolorosa, poiché Alessandro muore di colera il 7 giugno del 1855 assieme a molti dei suoi soldati. E quindi, quando è nominato Governatore di Roma Capitale, è probabile che Alfonso abbia voluto tramandare ai posteri un’effigie vittoriosa dei Bersaglieri – e implicitamente di suo fratello.
Ho approfittato di Edmondo De Amicis, testimone diretto di quel fatale evento, dell’intelligenza storica di Carlo Ginsburg, e del genio irriverente di Paolo Villaggio, per mettere in scena il gioco delle parti fra mito e realtà.