Fabiola Palmeri racconta il suo Giappone. Intervista all’autrice del romanzo Come un sushi fuor d’acqua
Una staffetta temporale fra gli anni Ottanta e l’oggi, due protagoniste alla scoperta della propria identità e la città di Tokyo come perno e unico punto di contatto fra loro. Non è la trama di un anime ma il soggetto di Come un sushi fuor d’acqua, primo romanzo della giornalista ed esperta di Giappone Fabiola Palmeri.
È il 1987, Bianca vuole diventare una giornalista ma sente che l’Italia non è il posto giusto per lei che sogna da sempre il Giappone, desidera raccontarlo e immergersi nella sua cultura, ancora poco conosciuta nell’Italia degli anni Ottanta. L’occasione sognata da una vita arriva con l’invito da parte di alcuni amici di Tokyo che la ospiterebbero per i primi tempi. Bianca parte così alla volta di Tokyo, città che diventerà l’amore più profondo e duraturo mai sperimentato.
Nel 2014, la diciassettenne Celeste vive a cavallo fra Italia e Giappone, ha un padre americano e una madre italiana, ama profondamente le culture che convivono nella sua famiglia ma sente di volere di più, iniziando a interrogarsi sulla sua identità e su quale sia la strada giusta per il suo futuro, quale il paese dove crescere e vivere.
Come un sushi fuor d’acqua (La Corte Editore) con il suo tandem temporale fra gli anni Ottanta e l’oggi racconta come mai prima d’ora la percezione che in Italia si ha del Giappone, in particolare della città di Tokyo. Lo sguardo delle sue protagoniste percorre la città, i quartieri, i locali, la sua natura composita e ordinata, la comunione mai vista altrove fra pensiero zen, radici e spinta all’innovazione e alla ricerca. Bianca parte per Tokyo con lo scopo di riempire questo gap, vuole corrispondere al suo paese un racconto quanto più intimo e preciso della città che ama e ci riesce sempre di più man mano che vi s’immerge.
Celeste riflette invece sulla differenza di percezione che i suoi coetanei italiani hanno del Giappone, le dispiace che tramite manga, anime, riviste e web arrivi solo una parte assai superficiale della cultura che lei incontra periodicamente e che sembra guidarla al meglio nella ricerca delle risposte che più le premono: qual è la sua identità? Dove trovare una risposta definitiva? Nel padre che sembra voler solo vivere il maggior numero di esperienze eccitanti insieme o nella madre che ha scelto di tornare in Italia dopo tanti anni di vita in Giappone? Forse nell’arte, che sembra entusiasmarla più di ogni altra cosa?
Fabiola Palmeri porta nel suo primo romanzo l’inestimabile esperienza come giornalista e corrispondente dalla città di Tokyo. Palmeri è stata tra le prime italiane a vivere, amare e raccontare il Giappone, ha lavorato nella redazione dell’NHK, il servizio pubblico radiotelevisivo giapponese e ha fatto incontri straordinari con i principali esponenti della cultura mondiale di passaggio a Tokyo, alcuni di loro, come Umberto Eco e Allen Ginsberg, li troviamo fra le pagine di Come un sushi fuor d’acqua, altri come il musicista Ryūichi Sakamoto vengono fuori parlando con lei, che agitando l’elegante caschetto che le incornicia il volto, snocciola con estrema dolcezza aneddoti meravigliosi, da ascoltare per ore.
Oggi Fabiola Palmeri è tra le più autorevoli figure nell’ambito della divulgazione giapponese in Italia, scrive per La Repubblica e vive a Torino dove organizza gruppi di lettura dedicati alla narrativa giapponese per il MAO e il Circolo dei lettori. L’abbiamo raggiunta per parlare di Come un sushi fuor d’acqua e di Giappone:
Fabiola, Come un sushi fuor d’acqua nasce dalla tua esperienza nella città di Tokyo, dove hai vissuto e lavorato per ben dodici anni. Come questo incredibile bagaglio di esperienze ha dato vita alle voci delle tue protagoniste, Bianca e Celeste?
Come non saprei, è stato un insieme di fattori a farmi iniziare il romanzo e scegliere due voci femminili quali protagoniste. Credo sia qualcosa di naturale essendo io una scrittrice, riuscire a esprimere meglio personaggi femminili, c’è una vicinanza ovviamente più forte. Sebbene il romanzo vada oltre i generi, ho preferito raccontare Tokyo e il Giappone attraverso la storia di due donne, il cui attaccamento per la capitale di quel paese è davvero forte, seppure per ragioni e realtà differenti.
Posso chiederti perché entrambe le tue protagoniste portano il nome di un colore?
Sono due nomi che mi piacciono molto, e due gradazioni cromatiche interessanti. Bianca comunica luminosità, chiarezza, forza, energia e si adatta bene al personaggio il cui colore la caratterizza e agli anni in cui vive il Giappone. Celeste è un colore altrettanto simbolico, decisamente più delicato e dalle tante sfumature, richiama alla creatività e all’evoluzione del pensiero, adatto all’altra protagonista del romanzo, un’adolescente in cerca d’identità fra città e figure genitoriali. Inoltre ho voluto rendere omaggio a Murakami Haruki e al suo L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio in cui ha dato ai suoi personaggi nomi di colori. Uno degli scrittori giapponesi che amo molto, ma non l’unico. Leggo con molta avidità specialmente le scrittrici contemporanee giapponesi, che trovo davvero capaci di raccontare straordinarie storie dalle più diverse caratteristiche. Per esempio i romanzi di Kirino Natsuo, Murata Sayaka, Kakuta Mitsuyo e Ogawa Ito, fra le altre.
Nonostante le tue protagoniste vivano in due epoche diverse – l’arco temporale di Bianca va dal 1987 al 1997 mentre quello di Celeste va dal 2014 al 2015 – affrontano una riflessione molto intensa anche se differente sulla questione dell’identità e dell’appartenenza. Come descriveresti i loro diversi punti di vista su quest’aspetto così intimo e importante per ognuno di noi?
Bianca non vede l’ora di mettere in gioco la sua identità, di immergersi in un mondo nuovo a lei per lo più sconosciuto, perché curiosa e desiderosa di conoscere nuovi orizzonti. Vuole arricchire la sua personalità, confrontandosi con nuove forme di quotidianità e linguaggio alle quali si accosta in maniera positiva. Per Celeste, così come per gli adolescenti post 2000, l’identità è qualcosa da difendere più che da costruire pezzo per pezzo. Oggi i ragazzi hanno a disposizione un piccolo mezzo che li mette in grado di sapere cosa succede a Tokyo o a NewYork H24, stando comodamente seduti in camera, la loro curiosità e fantasia viene annullata dalle immagini e dalle informazioni date da altri. Celeste in questo senso è molto avvantaggiata perché lei effettivamente vive in più luoghi e si sente a casa sia a Tokyo che in Italia. Tuttavia una tale ricchezza di possibilità la sovrasta, è una forza che in parte le si ritorce contro. Comincerà pian piano a trovare un equilibrio e soprattutto a compiere delle scelte.
Come Bianca anche tu hai lavorato per l’NHK, La Nippon Hōsō Kyōkai ovvero il servizio pubblico radiotelevisivo giapponese. In particolare la tua esperienza si è consolidata in radio, dove trasmettevi notizie dal Giappone in lingua italiana. Si tratta di un’esperienza magnifica e preziosa, ti chiedo di raccontarcela…
Hai ragione, è stata davvero un’esperienza lavorativa rara, come mai più mi è capitato di avere e che rimpiango. Il settimo piano dei tredici che formano l’edificio sede del servizio pubblico giapponese sito nella capitale Tokyo, è stato occupato per molti decenni dalle 22 redazioni in altrettante lingue, di Radio Japan, la radio estera della NHK. Trasmettevamo tutti i giorni da Tokyo al resto del mondo, i miei colleghi ed io appartenenti della redazione in lingua italiana davamo a chi ci ascoltava sintonizzandosi nelle frequenze in onde corte, le notizie di politica, economia, attualità e cultura dal Giappone. Insieme a noi altri colleghi trasmettevano in inglese, francese, spagnolo, portoghese russo, tedesco, persiano, cinese e così via. Eravamo un piccolo mondo all’interno di un palazzo di Tokyo. Ci si divertiva molto oltre che lavorare, e quell’ambiente ha contribuito ampiamente ad azzerare le differenze culturali e linguistiche fra noi coinvolti nella famiglia giapponese dell’informazione. Ora è tutto diventato digitale e NHK World si può ascoltare e in parte vedere online, la lingua italiana però è stata eliminata, un gran peccato.
Nel tuo romanzo la cultura pop giapponese, soprattutto tokyota, ha una grande importanza, potremmo persino considerarla uno dei protagonisti. Tu stessa hai lavorato – e continui a farlo – alla divulgazione in Italia dell’immaginario giapponese, della musica, dell’arte, dell’architettura, della cucina e del lifestyle. Che cosa è cambiato dagli anni Ottanta a oggi nel modo in cui gli italiani percepiscono il Giappone e la città di Tokyo?
Le informazioni cui tutti noi possiamo attingere oggi sono enormi in confronto agli anni Ottanta e praticamente immediate. Digitando sui nostri device possiamo sapere che tempo fa a Tokyo, quali locali offrono cibo tradizionale e quali cibo etnico, possiamo addirittura comprare cibi e libri, film e musica e sapere quanto di nuovo succede. Il tutto stando comodamente e pigramente seduti su una sedia davanti ad uno schermo.
Inoltre le traduzioni in italiano di letteratura e saggistica giapponese e di manga, e alcune versioni in inglese dei principali quotidiani nipponici ci permettono di seguire la cronaca quotidiana del Giappone. Mancano in verità i corrispondenti di Tv e altri media italiani da Tokyo, perché l’interesse economico è stato spostato verso la Cina, ma insomma…volendo si può conoscere parecchio di cosa avviene a Est dell’Est.
Ovviamente questa facilità di contatti ha facilitato e ampliato enormemente sia l’interesse delle persone sia la conoscenza del Giappone in genere. Ma viverci in Giappone, andarci anche se saltuariamente e vedere con i propri occhi, sperimentare di persona il luogo e le persone, rimane qualcosa di inevitabilmente prezioso, che permette di confrontarsi e fondersi nella società del luogo. Dunque pur se tanto è cambiato da decenni fa e noi italiani siamo meglio informati di quello che avviene in Giappone, rimangono credenze stereotipate, false idee e pittoresche immagini mentali sul Paese e i suoi abitanti. Ma sappiamo bene che questo è un atteggiamento comune al genere umano, purtroppo, in questo senso credo che il mio libro aiuti a ridimensionare la tendenza alla generalizzazione.
Uno dei passaggi più intimi e toccanti di Come un sushi fuor d’acqua è quella dove un amico d’infanzia di Celeste dice che lei, come tutti i giapponesi, è affetta da amaeru, la tendenza a dipendere dalla gentilezza altrui. Puoi descriverci meglio quest’attitudine?
Dipendenza, richiesta di essere amati, accettazione di comportamenti non del tutto appropriati, dolcezza esasperata… tanti potrebbero essere i dettagli che caratterizzano il concetto di *amae e del verbo *amaeru.
Di questo termine che descrive un atteggiamento caratteristico dei giapponesi, lessi per la prima volta decenni fa nel saggio dello psicoanalista Takeo Doi che nel 1971 scrisse Anatomia della dipendenza pubblicato in Italia da Cortina. La ricerca di armonia, o l’essere in armonia con chi ci circonda, tendenze così caratterizzanti del popolo giapponese e del Giappone stesso porta inevitabilmente a dipendere dagli altri, come un bambino dai genitori, in particolare dalla mamma. Senza bisogno di esprimersi o di agire sempre in modo corretto, la mamma capisce e comprende, accetta e indulge, previene addirittura le richieste del bambino.
Diventati adulti, le persone cresciute così hanno difficoltà ad esprimersi in maniera autoritaria e individuale. Ecco, grosso modo è questo che volevo far emergere della personalità di Celeste, anche se dentro la persona i conflitti e la voglia di affermazione spingono forte per emergere.