Credo ci sia un malinteso. Un imbarazzante malinteso.
Immaginate di trovarvi all’esterno, in un paese di cui credete di conoscere la lingua. Sbarcati in aeroporto avete voglia di un caffè, vi avvicinate al primo bar che vedete e iniziate a borbottare qualcosa, la barista, piuttosto imbarazzata, aggrotta le sopracciglia. Voi nel frattempo iniziate a gesticolare simulando di appoggiare le labbra ad una tazzina, emettete suoni onomatopeici per instaurare un possibile dialogo. Ed è in quell’esatto momento che vi ricordate di conoscere una sola lingua. La vergogna avvampa sul vostro viso, scappate senza nemmeno salutare e con una leggera voglia di caffè insoddisfatta.
Avete presente le numerose iniziative e mostre online che la forzata clausura ha moltiplicato evitando lo spauracchio dell’oblio? Ecco, un’avventura in terre straniere credendo di conoscere la lingua e inciampando in quell’imbarazzante malinteso, che farebbe arrossire anche i più sfacciati temerari. Non parlo dei talk, delle tv web e degli archivi spesso, finalmente, aperti e disponibili. Mi riferisco alle mostre “pensate” per la rete, quelle difficili ma forse possibili traduzioni di episodi espositivi offline, che sembrano mancarci (sottoscritto escluso) come ad un affamato il pane. Ammetto che in questo caso il termine traduzione non è corretto, perché è proprio in quell’equivoco che si annida l’imbarazzante malinteso. Non possiamo accontentarci di una planimetria in 3d, non possiamo accontentarci di guardare un’esposizione camminando virtualmente tra le stanze di una galleria pubblica o privata e vedere qualcosa appeso alle pareti o appoggiato al pavimento, non possiamo accontentarci di Google Arts& Culture. E quando dico non dobbiamo accontentarci, intendo l’arte contemporanea, chi produce, artisti, curatori, musei. Non abbiamo bisogno di traduttori simultanei: il luogo di fruizione (lo spazio della rete) possiede una sua sintassi, lo scimmiottamento di esperienze offline dovrebbe essere escluso dal campo d’azione.
Che gli Uffizi creino un tour virtuale della propria collezione, credo sia corretto, e capisco anche le fiere e le gallerie che devono vendere i loro “prodotti” chiusi nei magazzini. Quello che metto in discussione sono le nuove produzioni che si vogliono o devono confrontarsi con il web (aspetto peraltro non obbligatorio, alcuni lavori hanno bisogno di proporzione diretta, un rapporto uno a uno). L’esercizio necessario è sul contemporaneo, riuscire a sviluppare qualcosa che nasca dall’interno e non sia importato: un progetto autoctono, che parli quella lingua senza imbarazzi. Purtroppo, dal mio punto di osservazione, il panorama, almeno italiano, non riserva molte felici eccezioni. Io non saprei come affrontare un progetto di questo tipo, lo ammetto, ma se prima di aggredire la rete provassimo a pensare a come entrarvi? Se facessimo un passo indietro? L’oblio può spaventare, ma l’improvvisazione cede spesso al ridicolo. La scomparsa anche solo temporanea dalle scene, sembra terrorizzare molti attori o figuranti. I tempi lunghi, la differita è bandita dai piani di attacco militari: bisogna restare sul pezzo per dissolversi dopo poche ore.
Ed è per questa ragione che vorrei potare due esempi disottrazione.
Partirei dal progetto Green Cube Gallery (https://greencube.gallery/) fondato da Guido Segni e Matìas Ezequiel Reyes. Il progetto si presenta come uno“spazio nomade” online/offline teso a “sottolineare i limiti e il rapporto tra virtuale e reale: l’arte non è una raccolta di oggetti, è una raccolta di eventi e di stati. Come gli stati della materia, URL e IRL non sono opposti ma sono due forme distinte in cui la materia può esistere in condizioni diverse”. L’ultima iniziativa è stata Galery.Delivery, un format espositivo ideato da Sebastian Schmieg in cui parte del progetto consisteva nel recapitare a casa di chi aveva richiesto il servizio, un’opera che veniva installata all’interno dell’abitazione per la durata di un’ora.
Green Cube Gallery è un dispositivo che ha bisogno di una doppia realtà, non potrebbe esistere senza un’estensione nel mondo. Una relazione tra rete e spazio domestico / spazio città / spazio galleria / spazio tattile. Ogni episodio progettuale nato in rete, deve materializzarsi in esperienza offline: la materia deve trasformarsi, schiudersi.
Ecco, una delle realtà che credo meglio rappresentino lo spazio online, in questo momento si è fermata, per non tradire sé stessa, ossia quella doppia polarità: interno/esterno. Certo, avrebbe potuto facilmente elaborare esperienze completamente online, credo anche con esiti piuttosto positivi, ma hanno preferito sottrarsi, fare una scelta che definirei radicale e per questo rispettabile. L’oblio non è una loro preoccupazione.
Un altro progetto degno di nota è The Gallery revolve (visibile dal 7 maggio) di Alessandro Sambini – parte del progetto Re-Index pubblicato sul sito http://reindex.galleriamichelarizzo.net/ (ideato dalla galleria Michela Rizzo insieme a Matthew Attard, Simona Bariselli, Elena Forin, Denis Isaia, Francesco Jodice, Ryts Monet, Antoni Muntadas, David Rickard, Alessandro Sambini, Mariateresa Sartori).
In questo caso esiste l’azione, ma non porta a nulla: l’esercizio si rivela una disfatta quasi frustrante.
Sambini ha ideato un videogame in cui la planimetria della galleria Miche Rizzo è inclinata di 90°, in questo modo il visitatore “cade” scivolando tra gli spazi espositivi, percepisce che c’è qualcosa alle pareti, ma la caduta non gli consente di soffermarsi sulle opere, se non con evidenti difficoltà: il meccanismo non funziona, non c’è nessun premio finale, l’incapacità di vedere e soprattutto di rallentare rende l’esplorazione inutile. Il giocatore/visitatore ad ogni caduta si indebolisce, diventando vulnerabile e rischiando di perdere la vita terminando in anticipo l’esplorazione. Sambini si interroga sul dispositivo, su come costruire una mostra online, ma la risposta rimane sospesa in un tonfo fragoroso, in un volo scomposto. La galleria è uno spazio fisico, tattile. Sambini ammette di aver bisogno di più tempo, e lo confessa mettendo in scena un fallimento, senza alcun imbarazzo.