Tornata visibile alle Gallerie dell’Accademia di Venezia dopo un restauro lungo 10 anni, la Nuda di Giorgione conserva il fascino di ciò che è incompleto ed esercita, nella sua incompiutezza, un’attrazione misteriosa su chi la osserva.
Ciò che non si vede ha spesso lo stesso valore di ciò che è visibile. La Nuda di Giorgione, come il nome stesso suggerisce, avrebbe voluto mostrarci tutto: le forme tonde, le carni vivide, le curve sinuose. Invece, paradossalmente, nel suo stato di avanzato degrado non ci mostra quasi più nulla. Di lei sopravvive mezzo busto, anch’esso solcato da numerose e spesse crepe, che ne frantumano gli ultimi brandelli di fisicità sopravvissuti. A prendersi la scena, di fatti, sono stati l’umidità e la salsedine, che dal Canal Grande sono saliti invisibili fino alle veneziane sponde dove si erge il Fondaco dei Tedeschi, ex sede commerciale della nazione tedesca. In circa 400 anni ciò che non si vede si è mangiato ciò che tutto voleva mostrare e lo ha avvolto nel mistero. La Nuda oggi, anche dopo il restauro che l’ha riportata dopo 10 anni nelle sale della Galleria dell’Accademia, rivela molto poco di sé mistificando sia la sua figura – avvolta nel grigio come la laguna in una notte d’inverno – sia il suo significato originale, incerto sin dal momento della sua realizzazione.
Data d’esecuzione, in realtà, anch’essa incerta. Il governo veneziano aveva infatti commissionato il progetto a Giorgione – che si è occupato di affrescare la prestigiosa facciata sul Canal Grande e probabilmente quella rivolta sul Rio dell’Olio – e al suo allievo Tiziano – il quale si è invece occupato dei lati rivolti all’interno – nel 1507 in seguito all’incendio che aveva distrutto l’edificio nel 1505, ma nel momento della nuova apertura del Fondaco nel 1508 i lavori di pittura non fossero ancora terminati. Tanto che sembra sia sorto anche un contenzioso circa il compenso dovuto a Giorgione.
Ma al di là della datazione, ciò che lascia ancora più perplessi, alimentando però il fascino dell’intero complesso di opere, è che nessuno si mai riuscito ad interpretarle in modo unitario. Non è infatti solo una questione di deterioramento e di rimozione degli affreschi dalla sede originaria (la Nuda, per esempio, è conservata alle Gallerie dell’Accademia dal 1937), ma di un’indeterminatezza probabilmente voluta, tanto che neppure il Vasari è riuscito a trovare una valida interpretazione del ciclo, accontentandosi di circoscrivere l’opera in un puro intento decorativo:
Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte; chè nel vero non si ritrova storie che abbino ordine o rappresentino i fatti di nessuna persona segnalata o antica, o moderna; ed io per me non l’ho mai intese, né anche, per domanda che si sia fatta, ho trovato chi l’intenda
Appare però improbabile, nonostante l’autorevolezza della voce, che il significato degli affreschi possa ridursi qui. Probabilmente il ciclo andava rappresentando una serie di filosofi, figure mitologiche o bibliche, capaci di farsi allegorie della pace politica o della prosperità commerciale di Venezia. Per esempio lo storico dell’arte Alessandro Nova vede nei filosofi che misurano i pianeti un riferimento ai vari metalli prodotti in Germania e che, transitando a Venezia, venivano poi commerciati con profitto. Inoltre, al tempo, gli uffici dei magistrati incaricati di occuparsi del commercio e del denaro erano posti esattamente sull’altro lato del Canal Grande, in una posizione da fruitori privilegiati degli affreschi.
Ad ogni modo nulla di tutto questo è visibile. Sono solo ipotesi e congetture che alimentano la narrazione attorno ad un’opera dai confini incerti e incompleti, i quali richiedono all’osservatore il piacevole sforzo dell’indagine conoscitiva e, dove i documenti e le ricostruzioni a nostra disposizione si interrompono, di uno sforzo immaginativo. Viene allora spontaneo domandarsi, forse già retoricamente, se quel che di più ci attrae della Nuda di Giorgione siano gli stentati residui di immagine, mangiati dal tempo e dalla corrosione, oppure quel vuoto di materia che chiede suadente di essere riempito con tutte le storie e il contenuto che siamo capaci di proporre.