Raffaello. L’accademia di san luca e il mito dell’urbinate è la mostra che l’Accademia Nazionale di San Luca, Palazzo Carpegna, Roma, dedica al maestro urbinate dal 22 ottobre 2020 – 30 gennaio 2021.
Raccontano illustri cronisti della Roma settecentesca – e tra questi Goethe – di una veneranda e preziosa reliquia custodita gelosamente presso l’Accademia di San Luca, fatta oggetto di una singolare devozione laica dai connotati apotropaici: ci riferiamo al presunto cranio di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma, 1520), l’inclito protagonista del nostro Rinascimento, al cui nome (più che ad altri) usa accostarsi, per immediata simpatia, l’aggettivo “universale”.
Scriveva l’archeologo e critico d’arte Quatremère de Qincy: “Nel giorno della festa di S. Luca ogni anno le sale dell’accademia sono rese pubbliche, e ciascun anno quella testa, divenuta come una specie di reliquia, riceve da tutti li giovani artisti l’omaggio d’un innocente ma onorevole superstizione. Tutti si danno premura di toccarla con la loro matita…”. Lo abbiamo appreso compulsando il corposo, erudito ed intrigante catalogo che accompagna e completa la mostra promossa dall’Accademia di San Luca, storica istituzione romana e mondiale con sede a Palazzo Carpegna, per celebrare Raffaello nel cinquecentesimo anno dalla morte, e realizzata attingendo al proprio vastissimo e in parte ancora inesplorato patrimonio artistico ( se si eccettuano alcuni importanti prestiti), di solito difficilmente visibile al grande pubblico.
L’intreccio diacronico del magistero raffaellesco con la storia dell’Accademia è illustrato con l’ausilio di una partizione didascalica in cinque sezioni tematiche, e prende le mosse dalla pala d’altare – tradizionalmente attribuita all’urbinate e allogata, in origine, nella piccola chiesa di S. Luca all’Esquilino, prima sede della gloriosa istituzione – il cui soggetto ne rappresenta, in qualche modo, “la pietra fondativa”: San Luca, l’evangelista iconografo protettore degli artisti dipinge una Madonna con il Bambino sotto lo sguardo discreto e attento di Raffaello. La troviamo in una saletta dedicata, affiancata da una copia di Antiveduto Gramatica. Si tratta di un’opera-simbolo che godette, nel corso dei secoli, di numerose traduzioni sia pittoriche che incisorie e di cui il novecentista Achille Funi – tra i fautori del ritorno all’ordine dopo l’irruzione avanguardistica – ci rimanda un tenue riflesso nel suo “ Il ferrarese o Autoritratto con gli antichi” esposto in mostra.
Sul corpus raffaellesco – lo ricordiamo – si esercitarono e si formarono numerose generazioni di artisti poiché nell’attività didattica la copia (parola oggi invisa e negletta) sia dell’antico che delle opere dei grandi maestri era considerata parte essenziale, e dunque ineludibile, della formazione accademica. Copiare il soggetto di un quadro ritenuto esemplare, o ancora più spesso, un particolare, un dettaglio, affinando in tal modo il gesto e lo sguardo, era la via maestra per accedere a quel neoplatonico mondo delle forme, giardino edenico di armonia e di bellezza che ebbe in Raffaello uno dei suoi più illuminati esegeti.