La bellezza entra negli occhi di un bambino, futuro artista, Bruno Ceccobelli. Anche sul set di un film dedicato a Michelangelo
Chissà quanti (io sono tra questi) soffrono della Sindrome di Stendhal, malessere riportato dallo scrittore del ‘700 Henry Beyle visitando le meraviglie di Firenze. Un disturbo dissociativo che colpisce particolarmente le persone molto sensibili, di fronte alla bellezza. Io vivo questo fenomeno soprattutto nei musei dell’Arte Classica; subito dopo la terza stanza inizia la cenestofrenia: nausee, accompagnate da una sorta di vertigine, con palpitazioni che mi obbligano ad uscire al più presto, per riprendermi. Ed è per questo che, in questi musei, vado mirato, per vedere esclusivamente pochi capolavori.
Sì, la bellezza sconvolge, cioè potrebbe portare all’estasi e trascendere il tempo, oppure, per alcuni, nei casi di fragilità inconscia, alla pazzia. Pur se affascinato da alcune opere, tale fenomeno paranormale non mi accade quando vado in un museo d’Arte Contemporanea: in che epoca “sfortunata” viviamo!
Fenomeni cinestesici dovuti alla bellezza, alla verità e alla giustizia, prima mi entusiasmano e poi mi fanno commuovere. Beh, questa metafisica psicosomatica non solo mi avvolge quando sono di fronte ai grandi capolavori pittorici, ma anche ai grandi splendori letterari, alle poesie, ai film, alle immagini di Focus sul Cosmo. I miei famigliari sono testimoni di tanta fragilità, quando mi scoprono a piangere senza ritegno. Quindi, ho compreso che la forza della bellezza è un “trasporto” verso una “trasformazione”, per “un salto in alto”, uguale al passaggio che compie il bruco in farfalla. Peccato che non tutti sappiano slanciarsi verso questa ebbrezza.
A dodici anni, nel 1964, a Todi, ho incontrato Michelangelo. Non era come me l’aspettavo: lui, basso con il naso schiacciato, era, invece, abbastanza alto e nerboruto, interpretato dall’attore Charlton Heston, sul set del film “Il Tormento e l’Estasi”. Una produzione della Twentieth Century-Fox, diretta dall’esperto regista inglese Carol Reed. Todi, per un mese, divenne Roma; quegli incontri, per me epici, avvenivano solo nelle pause delle riprese, naturalmente… Sulla mia Piazza del Popolo che diventò, per magia scenografica, Piazza San Pietro di Roma. Stavano girando la ricostruzione straordinaria di un romanzo storico-artistico.
Essere al centro di quel sia pur falsissimo Rinascimento, essere in quella piazza di terra pesta, stipata di rumori e di vocii, con uomini in costume che sbozzavano figure tra i vari blocchi di marmo (mi sembrò di avere intravisto anche il gigantesco “schiavo morente”), era come essere in un sogno proibito. Lì, da tutte le parti, giravano enormi carri di legno cigolanti, trainati da buoi dalle lunghe corna ritorte e, dall’altro lato della piazza maggiore, una processione di cardinali vestiti di rosso porpora e di scudieri e di preti vestiti di nero, con appresso i bianchi chierichetti che snocciolavano litanie latine e oche che gironzolavano rintontite.
Sgattaiolavo incuriosito fra le botteghe degli artigiani: vasai, fabbri, falegnami, tutti con i loro chimerici attrezzi, attrezzi massicci, durevoli; da grande li avrei usati di sicuro anch’io… Sì, ancora oggi credo che un buon artista sia un ottimo artigiano. Poi gli armigeri a cavallo: e a cavallo c’era anche Papa Giulio II (l’attore Rex Harrison), tutto borchiato… con una palandrana argentata…. Assistetti anche alla scena del buon Bramante (l’attore Harry Andrews) che sfotteva Michelangelo sulla lentezza d’esecuzione delle 48 sculture per la tomba di Giulio II.
Nel retroscena della pulp fiction, oltre alle innumerevoli macchine da presa, si mise all’opera anche la mia “macchina del tempo” interiore, che ha funzionato benissimo, nell’ingenuità di un animo bambino: ero veramente compiaciuto di vivere questa dimensione surreale, e giurai che non sarei più tornato al futuro. Ecco, questo fu il mio primo lungo “sogno lucido”, la Sindrome di Stendhal mi si “risvegliò” allora. Da ciò decisi coscientemente che, nonostante la consapevolezza che quelli fossero tutti trucchi cinematografici, sarei diventato un grande ladro di immaginazione. Uno scassinatore di miracoli, e una mano lesta della creatività.
Potei visionare il film per intero, solo quando ero già quarantenne, lo rividi ad un cinema d’essai, a Roma, ne fui orgoglioso… Ripensandoci era stato un buon viatico che mi aveva predestinato alla mia professione di Coloraio delle nuvole. Tra l’altro, mi convinsi ancor più di questo fatto-fato: già da piccolino visitavo il Duomo della mia città, dove, all’interno, sulla controfacciata, c’è un affresco del Giudizio Universale di Ferraù Fenzoni, del 1596, copia quasi perfetta di quello della Cappella Sistina.
Uno dei tanti Giudizi Universali (in realtà ne esistono più di 50) che, in tutta Italia, era di moda eseguire, come quello celebre urbi et orbi michelangiolesco. Poi, a quel tempo, nel 1993, avevo già fatto sculture con tutti i materiali possibili, meno che con il marmo, così andai, tornandovi per più di dieci anni, a Pietrasanta. E mi sistemai nello studio dello scultore Marco Giannoni, a scalpellinare.
Leonardo, genio delicato, si profuse nella sua maniera pittorica dello “sfumato”, così come il titanico Michelangiolo, tormentato, scolpì nel marmo “il non finito”; insieme, per me, diedero vita, nell’Arte Classica, a un certo prototipo di concettualità Informale. Della serie: “l’Arte Animica è sempre contemporanea e parla ai vispi”, nonostante l’esistenza umana sia votata all’incompiutezza…
Alla soglia dei miei settanta anni ho avuto la fortuna di vedere ancora al cinema un altro Michelangiolo Buonarroti, più vero, più storico e drammatico nel film “Il Peccato” sottotitolo “Il furore di Michelangelo” di Andrej Konchalovsky, in una produzione russo-italiana, del 2019. Un film scultoreo, appassionante, che va dentro la frastagliata materia umana, fra realismo sovietico e omaggio al neorealismo italiano, un film che ti fa sentire gli odori acri e i sapori amari del cinquecento: il peccato della cupidigia, delle invidie, della vanità e dei tradimenti negli spettri della mente. Dalle perdizioni dell’orgoglio, all’arte e alla grazia, che sono velenose maledizioni, alle rivendicazioni, che fanno dire al maestro rabbioso (dileggiato dai prelati Della Rovere come “Divina Canaglia”), mentre osserva un suo capolavoro: “tanta bellezza per tutti questi tiranni assassini e puttane”.
Ma non era questo il peccato più grave che la sceneggiatura ci suggeriva e che quel turbolento genio cinquecentesco subì. Difatti lo tormentava una grande tristezza: il volgo e i suoi impresari ammiravano e pregavano solo la sua magistrale perfezione formale.
Una forma finita, chiusa, anche se è un capolavoro, non è la grazia vera, è un idolo. Il vitello d’oro è un giocattolo per borghesi frustrati… All’opposto chi si sta ricercando veramente… Michelangelo, e noi con lui, si angustia per non poter raggiungere la bellezza infinita simile ad un’alba gloriosa… ad una metanoia. Il suo “peccato” in assoluto consisteva nel non riuscire ad afferrare in nessuna maniera… quella eterea, cosmica, effimera, grandezza. Oltre la forma, oltre la materia, oltre ai fegatelli; forse l’enigmatico Michelangelo voleva ritrarre la luce intelligibile di Dio…
Allora il regista Konchalovsky ci rammenta: “la nostra esistenza è fatta a tanti livelli, alcuni di questi livelli non ci sono noti ed è lì che si trova Dio…”. Per i satanassi inorriditi dalla parola “Dio”, vorrei tradurla in concetti della fisica quantistica… Dunque: noi siamo materia e, ahinoi, Dio è l’antimateria, Dio è un’interazione debole che trasforma gli elettroni e i neutroni morenti, che si allontanano dai protoni, in una radiazione degli atomi… cioè la materia diventa Luce.
Di questa luce, di quest’anima, i veri pittori e amatori dell’Arte si ammantano conturbandosi e “tormentandosi” e, per spiegare meglio questa estasi, faccio riferimento alla teoria orgonica di Wilhelm Reich. Inoltre ricordo che l’idea-dea della Bellezza, quella che sovente fa scattare la Sindrome di Stendhal, cioè l’Afrodite dea greca dell’Amore, la nostra Venere era anche la dea della Fortuna e della Fertilità, onorata nel mondo antico romano anche come la Venere Verticordia “che apre i cuori”. L’estasi è un’apertura del cuore, ed è allora che c’è una radiazione che ci rischiara la visione “aggrovigliata” della nostra vita: il divenire della fiducia, speranza.
Ehi, a voi umani, disumani, post-umani e a quelli che hanno bisogno della fisica lisergica, a voi che mi avete letto fin qui, dico grazie. E scusatemi se non vi ho descritto quell’arte della citazione, cioè della scimmia Cheeta, e quell’arte della tautologia, cioè dell’ovvio. O quell’arte del pappagallo, cioè degli accademici, e quell’arte dei babbei, cioè alla maniera dei babbi nobili. O quell’arte della stitichezza, cioè non ci metto niente, così non sbaglio, e quell’arte dei carrozzieri, cioè dei designer. O quell’arte equivoca, cioè cinetica e virtuale, tipo “quella del futuro” che è, ma non è. E quell’arte futurista, cioè vado forte così arrivo primo, o quell’arte degli orafi cioè ti metto un costo prezioso così sei convinto della qualità. E quell’arte comica, cioè quella che quando la osservi dici: “ma ci fai o ci sei?”.
Bruno Ceccobelli
http://www.brunoceccobelli.com/