Marco Maria Zanin è attualmente dottorando in Antropologia presso l’ISCTE-NOVA di Lisbona. Parallelamente sviluppa il suo percorso artistico. Il mito e archetipo come matrici sommerse del comportamento moderno sono al centro della sua indagine
Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate delle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.
Questo mese mi confronto con l’artista Marco Maria Zanin, nato a Padova nel 1983. Laureato prima in Lettere e Filosofia, poi in Relazioni Internazionali, è attualmente dottorando in Antropologia presso l’ISCTE-NOVA di Lisbona. Parallelamente sviluppa il suo percorso artistico, trascorrendo periodi di ricerca in diverse parti del mondo, con base tra Padova, Lisbona e San Paolo.
Il mito e archetipo come matrici sommerse del comportamento moderno sono al centro della sua indagine, che si basa sull’osservazione del rapporto tra uomo, territorio e tempo.
Nel solo show Soil kinships / Parentele di terra, a cura di Matteo Lucchetti, presso la galleria Spazio Nuovo di Roma, c’è tutto il tuo bagaglio conoscitivo nel quale abbracci le tue origini venete; per poi spaziare nei contesti nei quali si è nutrita la tua ricerca in Spagna, Portogallo e in Brasile. Potresti introdurre il tuo percorso formativo e le geografie che l’hanno plasmato fino a ora?
Ho studiato prima Lettere e Filosofia, poi Relazioni Internazionali, essendo interessato sin da molto giovane a unire prospettive e punti di vista di diverse discipline. Ho iniziato le prime esperienze di lavoro nell’ambito della cooperazione internazionale, spostandomi tra l’Europa e il Sud America, due poli con caratteristiche simili ma molto diversi, il cui confronto ha sempre nutrito anche la mia pratica di ricerca. Da quando, nel 2010, ho fatto la prima piccola mostra personale in cui, spinto dagli amici, ho raggruppato alcune delle fotografie che facevo portando sempre con me la mia vecchia Pentax, ho deciso di approfondire la ricerca artistica e mi sono dedicato esclusivamente a quello, cercando di unire la mia formazione umanistica con l’arte. Ho avuto la fortuna di entrare da subito in contatto con quella ‘domanda eterna’ a cui avrei voluto rispondere attraverso altri studi e la pratica artistica, ovvero come tradurre il mondo legato alle radici e alle tradizioni popolari affinché possa assumere forza per costruire il presente e il futuro. Sin da quel momento ho lavorato su una rilettura del mondo contadino delle mie origini venete e sulla diversità delle tradizioni popolari legate alla terra in differenti parti del mondo. Dal 2013 al 2017 ho vissuto a San Paolo del Brasile, nutrendomi della vitalità e del dinamismo della cultura brasiliana; sono stati anni importanti per la mia crescita professionale. Di recente ho iniziato un dottorato di ricerca in Antropologia a Lisbona, città che costituisce un ponte tra il Brasile, l’Africa e l’Europa. Il Portogallo è un luogo molto interessante anche perché è una terra ricchissima di tradizioni popolari, che, a differenza di altri Paesi più industrializzati, sono ancora vive e praticate. Un contesto ideale per approfondire la mia ricerca. Sono inoltre impegnato ad approfondire l’approccio transdisciplinare tra l’arte come strumento di produzione di conoscenza e l’Antropologia, credo ci sia da percorrere un cammino fertile, che porta l’arte al di fuori della bolla del suo sistema e degli addetti ai lavori, riavvicinandola in maniera efficace alle sfide della vita quotidiana.
Chi sono stati i tuoi maestri?
Per quanto riguarda l’arte sono un curiosissimo autodidatta. Ho iniziato con la fotografia e certamente come molti della mia generazione, in una fase iniziale, sono stato influenzato da alcuni degli autori coinvolti nel famoso Viaggio in Italia, tra cui Luigi Ghirri, ma poi ho abbandonato quel linguaggio e ho sviluppato un modo più personale di intendere la fotografia, facendola spesso dialogare con la scultura o con dei gesti performativi dei quali la fotografia è l’ultimo passaggio. Dico sempre che il mio modo di fotografare è ‘antropofagico’, nel senso che mi piace digerire e lasciar trapelare tutta una serie di referenze nella storia della fotografia che poi trasmetto a mio modo, ma senza la pretesa di innovare o di portare la fotografia ‘più avanti’ attraverso un uso sperimentale del linguaggio. Non so se chiamarli maestri, ma le referenze di cui mi sono più nutrito sono autori di inizio Novecento tra cui Brassai, Walker Evans, Man Ray. Forse riconosco di più i maestri in ambito teorico, tra cui Georges Didi-Huberman, Bruno Latour, Tim Ingold e Richard Sennett.
All’improvviso arriva la pandemia; rivoluziona le nostre vite, alterando la quotidianità fatta di contatti, viaggi e occasioni. Per qualcuno può essere stata un’occasione di introspezione creativa, di assemblaggi, di poetiche ritrovate nelle quale è stata possibile la gestazione, la creazione. Come è stato per te?
Per me è stato un momento decisamente positivo. Quando abbiamo ricevuto la notizia che il COVID era arrivato in Italia, ero in Brasile a terminare un lungo periodo che avevo deciso di dedicare a dei corsi di meditazione, per cui, tornato in Italia ad aprile, ho deciso di usare il momento per portare avanti un lavoro interiore che sentivo sarebbe stato utile per una nuova ripartenza, più o meno all’unisono con quello che stava accadendo fuori. Avevamo tempo a disposizione e mi sono preso tempo. Nel mentre era anche arrivata la notizia dell’ammissione al dottorato, per cui questo percorso di decostruzione/ricostruzione è stato accompagnato dagli studi in antropologia, che mi hanno permesso di approfondire una serie di aspetti della mia area di ricerca che prima avevo raggiunto solo a livello intuitivo, mentre adesso stavano prendendo corpo e forza. Non potendo uscire a fotografare, mi è venuta l’idea di iniziare a lavorare con dell’argilla che era rimasta in garage. Anche questo è accaduto assieme al resto delle esplorazioni; ha preso vita un processo molto libero in cui ho iniziato a dialogare con il materiale, non sapendo dove questo mi avrebbe portato. Avevo anche voglia di prendere un po’ di distanza dalle dinamiche di mercato e di sistema legate alla fotografia, godendomi la libertà di sperimentare con un altro materiale. La cosa interessante è che il dialogo con l’argilla ha aperto una strada completamente nuova, in cui mi sono sentito molto a mio agio. È nata la serie di sculture in ceramica Embodied Matter, delle quali buona parte saranno esposte nella mostra Soil Kinships / Parentele di terra’ . Quindi si, nonostante le evidenti difficoltà, soprattutto per noi che viviamo di questo, è stato un prezioso periodo di riassestamento e di gestazione. Ora si riparte e si riparte con una nuova energia.
Vorrei mi introducessi la genesi che ha portato ad assemblare i punti in comune tra le culture; creando un humus nel quale la terra diventa il recipiente nel quale convergono gli elementi delle culture: la funzione con la spiritualità; il lavoro e la cerimonia; l’uso e il rito. C’è un profondo collegamento con l’arte del passato, sradicandosi allo stesso tempo. Puoi parlarcene?
La globalizzazione ha portato la differenza a incontrarsi, e reso possibile che lo scenario internazionale si popolasse di una pluralità di culture, soggettività e punti di vista che entrano costantemente in contatto e in conflitto. Questo contatto di diversità mette necessariamente in discussione valori e riferimenti, andando a sfidare le visioni egemoniche. Credo sia importante in questo contesto, anche per costruire un approccio che abbracci il più possibile la pluralità dei punti di vista, da un lato mettere a fuoco i punti in comune e dall’altro decostruire gli stereotipi che si reggono su categorie cognitive non più valide. Le opere che compongono Soil kinships / Parentele di terra, vanno in entrambe le direzioni. Le sculture di Embodied Matter, ad esempio, sono vasi che nascono sulla forma di zappe in ferro forgiate per diversi tipi di coltura e di terreno, e vivono sulla frontiera tra arte e artefatto, tra oggetto rituale e oggetto di uso comune. Questo cammino sulla frontiera, attraverso un ibrido che sta nel mezzo, secondo me è efficace per allentare la distanza e la polarizzazione tra l’arte contemporanea e l’oggetto di uso comune. Sono oggetti che riprendono una pratica che come comunità umana abbiamo fatto da sempre, per contenere cibi, bevande, o per scopi cerimoniali. Mi interessa che la zappa, altro oggetto di uso comune usato per il lavoro della terra, diventi un oggetto cerimoniale. Tutte le opere riguardano il nostro rapporto con la terra, che a mio modo di vedere può essere considerato come uno dei punti in comune tra tutte le culture di cui parlavo prima. Oltre a questo, altro punto in comune è il fare, la relazione intima tra l’essere umano e i materiali che si genera, per esempio, nella produzione di un artefatto. In Family portrait c’è questo dialogo tra artefatti, in parte cerimoniali in parte di uso comune, che suggerisce una certa forma di parentela tra le culture.
C’è una notevole conoscenza della storia dell’arte e delle culture indigene nel modo nel quale hai realizzato i lavori che compongono la mostra, traspare tutto il tuo sapere.
Devo ringraziare gli studi umanistici, i precedenti, ma soprattutto i più recenti in Antropologia, che stanno facendo da collante a tutto quanto appreso in passato. Credo che l’Antropologia, per la sua capacità di osservare e mettersi in relazione empatica con l’Altro, con l’Altro distante soprattutto, la sua capacità di farci spostare il nostro punto di vista e decostruire gli stereotipi che si annidano nel nostro stesso sguardo, sia una delle discipline del futuro. Messa al fianco dell’arte come strumento di ricerca e di produzione di conoscenza, formano un’accoppiata vincente. Ho ancora tre anni di dottorato, una lunga serie di letture e di esperienze sul campo da vivere, sono veramente curioso di vedere dove mi porteranno.
C’è una responsabilità di significato. Come sta cambiando l’ambiente dell’arte per via della pandemia? Come sarà alla sua conclusione?
Credo che tutti noi ci siamo fatti una serie di domande durante questo periodo, e ho percepito che ce ne siamo fatte anche come artisti e operatori del settore, riguardo il perché e il come della nostra pratica. È inutile nascondere che una buona parte dei contenuti, delle dinamiche e dei meccanismi che fanno parte del mondo dell’arte siano molto superficiali, e mi auguro che questo duro colpo che abbiamo subito sia utile per ripensare alla qualità e all’utilità di quello che facciamo. Mi sembra che ci siano già dei segnali di questo cambiamento. Credo che sia importante configurarci sempre di più come una comunità di persone impegnate sul fronte della cultura, che possono collaborare e sostenersi tra loro. Alla sua conclusione credo che il sistema sarà sempre lo stesso, con le solite dinamiche legate all’individualismo e alla competizione, ma sarà anche diverso perché si sarà diffuso anche questo nuovo tipo di consapevolezza. Ci vorrà probabilmente più tempo, ma ho fiducia che sempre più colleghi e operatori stiano lavorando in maniera sempre più approfondita e autentica.
Questo contenuto è stato realizzato da Camilla Boemio per Forme Uniche.
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