Dune, Villeneuve porta la sua visione d’autore nell’adattamento della saga cult di Frank Herbert. Al cinema
Molto è stato detto, molto è stato pensato di questo Dune. Tralasciando tutta la complessa storia editoriale (dal romanzo di Frank Herbert all’ambiziosissimo film mai realizzato Jodorowsky, passando per quello tremendo di Lynch), quello di Villeneuve che film è? È, a conti fatti, una pellicola che stupisce e non stupisce: i fan del regista capiranno, e apprezzeranno, gli altri resteranno, probabilmente, un po’ perplessi (non necessariamente delusi) dal ritrovarsi in un territorio cinematografico sconosciuto. Villeneuve è uno dei registi contemporanei più dotati, non solo per capacità tecnicamente ma anche (soprattutto?) per la visione complessiva di cosa debba essere il “suo” cinema. Questo Dune prosegue alla sua maniera la strada pericolosissima intrapresa con Blade Runner 2049 (magniloquente, nostalgico e un filo soporifero): fantascienza esistenziale + soggetto cult con aspettative alle stelle. È una direzione inaugurata già con Arrival, il film più importante del 2016, che dalla sua parte aveva un romanzo premio Nebula non conosciuto al grande pubblico mainstream (Storia della tua vita di Ted Chiang).
Con Dune Villeneuve riesce in un’impresa molto ardua, adattare in una forma convincente (affascinante, magnetica) un romanzo difficile, complesso a livello contenutistico (metafora ecologica e teologica, parabola messianica e archetipica sul sacrificio, la resurrezione, l’eterno ritorno, nonché manifesto sul potere delle mente) e prolisso a livello letterario (molte pagine, molte digressioni, molte descrizioni, molti seguiti e altrettanti prequel – anche grazie allo zampino del figlio dello scrittore).
L’approccio del regista canadese è filologico, forse troppo, ma la fantascienza va un po’ illustrata con un piccolo bugiardino per permettere allo spettatore di farvi il suo ingresso. Quel che ne risulta è un film d’autore, che guarda più a Wong Kar-wai che a George Lucas (fa pensare più al pittoricismo desertico di Ashes of Time, impressionista, che a Star Wars – per fortuna): pochissima l’azione, molti i primissimi piani e i dettagli, con una netta predilezione per una dimensione emotiva trattenuta rispetto un sentimentalismo spicciolo. È un film lento, a tratti meditabondo, sempre cerimoniale, ma mai noioso: ogni scena è la preparazione alla prossima, in una lunga staffetta di ritualità. Gioca alla perfezione la carta degli effetti speciali, puntando di più sulla regia (ombre & nebbia) che sulla GCI pacchiana che sembra ormai una tassa obliggatoria per qualsiasi blockbuster, in maniera furba potrebbe dire qualcuno, più semplicemente con la visione e la classe di un grande autore che conosce alla perfezione l’identià che vuole dare al proprio mondo visuale. Tornano le suggestioni delle architetture momunentali brutaliste socialiste, che appaiono qui già con la patina di reperti archeologici futuribili – accennate in Arrival, esplose in Blade Runner 2046, qui al loro massimo desolante splendore.
Il film si conclude pressoché a metà del libro, lasciando intendere che in arrivo ci sarà anche un seguito, per ora il botteghino ha risposto bene, quindi salvo imprevisti all’orizzonte c’è un franchising (benedetto proprio dalla produzione bulimica degli Herbert che hanno trasformato Dune in un’epopea cosmica, con rivoluzioni, discendenti, antenati e narrazioni epiche per ognuno dei suoi personaggi). Così il film però appare monco, non tanto per il finale aperto, ma per la narrazione che sembra essere preminentemente propedeutica, manifestandosi così, più che nell’identità di una prima parte, come una (bellissima) introduzione, restando per tutto il tempo in una dimensione sospesa di non-azione, perché sebbene tanto accade, tutto suona come preliminare e mai centrale.