Ha Chong-Hyun arriva a Venezia con una retrospettiva che attraversa l’intera sua carriera. Fino al 24 Agosto 2022 a Palazzetto Tito-Fondazione Bevilacqua La Masa.
L’arte parla e il silenzio è una forma di parola. Nell’arte di Ha Chong-Hyun, che si svolge ormai da mezzo secolo, vedo sia la parola che il silenzio con una forte energia cinetica.
Kim Mi-Kyung su Ha Chong-Hyun
La grande crescita di interesse verso la cultura coreana in Italia ed Europa si riscontra anche questa primavera alla 59° edizione della Biennale di Venezia, con una serie di eventi collaterali ufficiali che vedono come protagonisti figure cardine dell’arte contemporanea Coreana.
Principale esempio è il ritorno a Venezia di Ha Chong-Hyun con un’importante mostra retrospettiva allestita nello storico Palazzetto Tito (Istituzione Fondazione Bevilacqua La Masa). Curata da Sunjung Kim e resa possibile grazie allo sforzo di Kukje Art and Culture Foundation e supportato dalla coreana Kukje Gallery e dalla newyorkese Tina Kim Gallery, la mostra presenta una selezione di oltre venti opere realizzate negli ultimi sei decenni, sviluppando una narrazione completa di materiali, metodi e sperimentazione creativa dell’artista.
Allestita nell’intero spazio espositivo di Fondazione Bevilaqua La Masa, della mostra fanno parte anche pezzi difficilmente accessibili in Corea – come quelli relativi al periodo Informale o di Arte Urbana – offrendo la possibilità di conoscere l’artista sia come una figura cardine del movimento Dansaekhwa, ma anche per altri punti fondamentali della sua pratica. Un’immersione a 360° che ci permette di comprendere il suo ruolo pionieristico per l’arte contemporanea Coreana.
Ha Chong-Hyun è stato infatti una figura fondamentale nella trasformazione del panorama dell’arte contemporanea coreana negli anni ‘60 e ‘70. Non solo per la sua ricerca e sperimentazione artistica, ma anche in relazione al momento storico della sua formazione, che coincide con il periodo della ricostruzione del dopoguerra in Corea. Proprio su questo, la curatrice della mostra racconta:
Avendo vissuto la turbolenta storia moderna della Corea che comprende la guerra di Corea e la divisione della penisola, la politica di sviluppo economico del dopoguerra e il regime militare, il tutto in un periodo segnato dall’occupazione giapponese, dalla liberazione e dalla Guerra Fredda, Ha Chong-Hyun è la prova vivente che arte e società sono inseparabili.
Ha Chong-Hyun è anche uno dei principali esponenti di un importante movimento pittorico coreano, chiamato Dansaekhwa, che si configura attorno agli anni ‘70 del novecento e adotta un orientamento minimalista e monocromatico, lavorando sulla matericità dei dipinti attraverso nuove sperimentazioni, nate proprio dalle condizioni storiche del momento. Nel dopoguerra esistevano infatti grosse limitazioni sull’accessibilità dei materiali pittorici. Ma, come spesso accade, è solo quando si hanno limiti che si esplorano le possibilità di superarli.
D’altra parte il movimento non è stato mosso esclusivamente da un ragionamento intellettuale sulla pratica pittorica, ma anche una volontà radicale di discostarsi da estetiche e pratiche legate ai precedenti storici della guerra, del regime autoritario e del colonialismo. Dansaekhwa racchiude in sé quindi sia una concezione pittorica sia una presa di parte politica, che si respira nell’adozione di una scelta dei materiali in cui fondamentalmente risiede un elemento critico del presente. Del resto la storia dell’arte da sempre ci insegna quanto la creazione artistica sia inscindibile dalla realtà in cui opera, un canone che noi italiani conosciamo molto bene se guardiamo alla nostra produzione del ‘900.
Seguendo questo elemento cardine che vede arte e società come elementi in continua relazione, Ha Chong-Hyun elabora il suo vocabolario artistico proprio in relazione all’ambiente sociale contemporaneo. Stilisticamente si interessa a spingere la pittura oltre ai suoi limiti. In una prima fase bruciando superficie della tela con il fuoco, congiungendo una raffinata formalità ad una riflessione sullo spirito cupo del tempo, ancora macchiato dai traumi di guerra e trasportato in materia artistica nel suo periodo informale.
La sua opera matura si sviluppa dopo il 1969, quando inizia a sperimentare lo spazio realizzando installazioni site-specific e opere tridimensionali usando materiali non tradizionali come filo spinato, gesso, legno, giornali e tele di iuta utilizzate per trasportare aiuti alimentari dagli Stati Uniti dopo la guerra di Corea.
Nel periodo del dopoguerra e in correlazione con lo sviluppo urbano di Seoul, Ha inizia a riflettere sull’importanza di un’arte urbana, in cui trasporta su tela le geometrie e il dinamismo che si respirava all’inizio degli anni ‘70. Molti i parallelismi che potremmo fare con il Futurismo, ma anche con le attitudini e le idee dello spazialismo Milanese. Ulteriore analogia con AG (Avant Guard Association), di cui l’artista è tra i principali membri, che con una rivista e l’istituzione della Seoul Biennale riflette un sentimento sperimentale e “anti-artistico” (in senso classico) che vedeva l’arte come esperienza. Anche in Corea la grande sperimentazione degli anni ’60 e ’70 trovava il suo spazio.
Finalmente, nel 1974 inizia la sua acclamata serie Conjunction, che contraddistingue la maturità della ricerca artistica di Ha Chong-Hyun, in cui impiega il “bae-ap-bub”, un metodo innovativo con cui spinge il colore a olio dal retro al fronte facendolo passare per la trama della tela grezza. Si concretizza quindi una filosofia che unisce la purezza del mezzo pittorico e la fisicità dell’artista – che, appunto, si congiungono nell’atto del dipingere
Visitare la mostra di Ha Chong-Hyun permette quindi non solo di ammirare l’opera di uno degli artisti coreani contemporanei più celebrati, ma anche di comprendere alcune coordinate storiche e socio-culturali di un paese dal passato complesso attraverso lo sguardo sensibile e attento di uno dei principali protagonisti della scena artistica del suo tempo. Come dice spesso Jerry Saltz – rinomato critico d’arte – Art is life and life is art, l’arte e la vita vanno di pari passo, sono inscindibili, e la mostra presso Palazzetto Tito ci offre un interessante spaccato di questa imprescindibile verità in una sua unica declinazione coreana.