Il mio Rembrandt, arriva al cinema il documentario che segue le storie di mercanti e collezionisti ossessionati dalle opere dell’artista olandese
Creare un dramma shakespeariano, questo l’obiettivo dichiarato di Oeke Hoogendijk, regista de Il Mio Rembrandt: “Devo molto alla fiducia e al candore dei miei protagonisti che – per quanto diversi possano essere i loro mondi – condividono un dettaglio cruciale che li ha tutti in pugno: la febbre di Rembrandt. Non è Rembrandt in persona, ma la loro passione per lui che gioca il ruolo principale. La domanda che rimane dopo aver visto il film non è «Cosa facciamo oggi con l’eredità di Rembrandt?», quanto piuttosto: «Cosa c’entra con noi l’eredità di Rembrandt?»”
Esce in sala nelle sale italiane – 6, 7, 8 giugno – il nuovo appuntamento della grande arte al cinema: Il Mio Rembrandt: della regista olandese Oeke Hoogendijk, un docufilm che ci porta nel mondo degli Old Masters con un mosaico di storie dove la passione sfrenata per i dipinti di Rembrandt porta a sviluppi drammatici e colpi di scena.
Mentre collezionisti d’arte come Eijk e Rose-Marie De Mol van Otterloo, l’americano Thomas Kaplan e lo scozzese Duca di Buccleuch mostrano il legame speciale che hanno con i “loro” Rembrandt, il banchiere Eric de Rothschild mette due Rembrandt in vendita, innescando una battaglia politica per il possesso dei quadri tra il Rijksmuseum e il Louvre. Il film segue anche l’aristocratico mercante d’arte olandese Jan Six sulle tracce di due “nuovi” dipinti dell’artista: uno viaggio di scoperta che pare la realizzazione del suo più grande sogno d’infanzia. Ma quando è accusato di avere violato l’accordo con un altro mercante d’arte le cose iniziano a mettersi male…
Seguendo tutte queste traiettorie, Il Mio Rembrandt mostra cosa rende il lavoro del pittore olandese così speciale, tanto da toccare alcune persone in maniera così profonda e viscerale, tanto di diventare una vera e propria ossessione.
Così Oeke Hoogendijk spiega questo amore viscerale per le opere dell’artista: “C’è qualcosa di curioso in Rembrandt; è come se il suo lavoro avesse una veridicità, un’emotività e un’empatia così straordinarie che chiunque guardi un suo dipinto vada alla ricerca di se stesso. Questo è ciò che ha reso Rembrandt così speciale anche per i cittadini della Amsterdam del XVII secolo che facevano la fila per farsi ritrarre da lui: Rembrandt ha guardato sotto la superficie e ha mostrato chi fossero veramente le persone che disegnava. Non lusingava i suoi committenti, pur avendo un occhio per la vanità e la raffinatezza dell’ambiente sociale che dipingeva. E ha applicato questo metodo senza pietà anche a se stesso. I suoi autoritratti, specialmente quelli tardi, sono esplorazioni incredibilmente oneste del tributo psicologico che paghiamo nel corso delle nostre vite. Nei suoi ultimi ritratti, Rembrandt pare rassegnato. “Accettami come sono”, sembra voler dire. Il suo modo di dipingere ti fa capire che la vita non è perfetta e che ognuno ha i suoi difetti e questo è ciò che ci rende umani. È così che, dal XVII secolo, Rembrandt alza uno specchio per noi contemporanei, uno specchio che stuzzica e solletica. Come ha giustamente detto Taco Dibbits: Rembrandt è un omaggio all’umanità”.
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