Viafarini ha aperto le porte di VIR Viafarini-in-residence e Archivio Viafarini per restituire i progetti realizzati dagli artisti presenti in residenza.
Lorenzo Montinaro (Taranto, 1997) ha presentato la sua performance Monumento; un lavoro afferente a un progetto più ampio che conduce da anni e che affronta temi quali la morte, la memoria e il ricordo. La performance ha visto la partecipazione di Jacopo Benassi, che ha tatuato sulla schiena di Lorenzo tredici nomi di individui sconosciuti, morti durante il periodo di residenza a Milano dell’artista.
Per conoscere meglio la sua poetica abbiamo dialogato con lui.
Monumento – prima tua performance, tenutasi il 29 marzo in occasione di Viafarini Open Studio – rappresenta il culmine del tuo percorso artistico incentrato su temi esistenziali come la finitezza dell’essere umano e l’inesorabile scorrere del tempo. Puoi farci una breve introduzione ai tuoi lavori e alla tua pratica artistica?
La mia pratica artistica nasce dalla vita di tutti i giorni. Una vita intesa come esperienza effimera, un respiro incerto, un filo di fiato aspirato fino a tremare. C’è una linea sottile che ci separa da un’eternità ignota e oscura: a me interessa quella linea. Se dovessi spiegare cosa intendo per un lavoro, lo paragonerei a una stanza buia con le serrande chiuse, dove da un punto entra uno spiraglio di luce. L’opera d’arte è la linea che sta nel mezzo tra il punto di luce nella stanza, il mio corpo che interrompe il raggio e il mio sguardo che si sforza di vedere al di là di quella piccola fessura per scoprire cosa c’è fuori.
Ci racconti la serie di lavori che hai realizzato durante la tua residenza in Viafarini?
In Viafarini la mia idea iniziale era quella di costruirmi una casa, ma per motivi pratici e di spazio, essendo un luogo che ho condiviso con altri, non è stato possibile. Non del tutto almeno. L’idea di casa, di abitazione era comunque molto evidente.
Degli scaffali zincati con all’interno dei ceri fungevano da mura, fondazione, cattedrali di pensiero; i ceri sono stati tutti recuperati nel giro di tre mesi da chiese vicino casa mia, a Milano. In un angolo del mio spazio ho posizionato il lavoro Ero, un pezzo di lapide su cui sono intervenuto andando a cancellare quel poco che rimaneva di un nome e di un cognome per ricavarne un verbo assoluto, che ricorda il VIXI romano. In quella precisa posizione di intersezione di linee, il lavoro sembrava assorbire tutta l’energia vitale degli altri spazi dello studio, dando l’impressione che quel pezzo di marmo dimenticato da Dio riprendesse vitalità.
Gli altri lavori erano perlopiù ritratti di persone dove ciascuno può sentirsi autoritratto. Anzi, più che una scelta, diventa quasi un obbligo, una sorta di empatia forzata. I ritratti sono di familiari, persone di mia conoscenza, o persone che mi sento di conoscere grazie a ciò che mi hanno dato attraverso la loro arte. Ciao amore ciao, ad esempio, è un ritratto di Tenco. La pistola usata per suicidarsi era completamente avvolta da un nastro da registrazione su cui era incisa la mia voce che cantava a squarciagola Ciao amore ciao, canzone con cui decise di andarsene da questo mondo. È stato un modo per affermare la mia totale comprensione, abbracciare un momento così intenso. Ho voluto che la carica fosse bloccata con il colpo in canna, come a ricordare l’istante prima dello sparo, prima del compimento di quel gesto. La mia voce si stringeva intorno alla pistola in un atto di simbiosi e di immedesimazione. Come ho già ribadito precedentemente, l’idea era quella di costruirmi una casa e alla fine non mancava nulla per somigliare a una normale abitazione: c’erano le mura, le foto di famiglia (Cenacolo), gli specchi, i libri, le cornici. Ho costruito, edificato il mio spazio parlando non tanto della morte altrui ma del loro morire, che è diverso perché, paradossalmente, vitale. L’essere umano tende a rifuggire la sensazione che prova quando si interfaccia alla morte altrui e avverte di sentirsi più vivo che mai perché è vigile, capace di poterla concepire e consapevole di essere ancora su questo mondo.
Arriviamo a Monumento. In una prima fase, quella preparatoria alla performance, hai annotato i nomi e i cognomi degli individui deceduti che trovavi nei manifesti funebri sparsi per Milano; l’atto performativo ha poi visto la partecipazione di Jacopo Benassi, che ha avuto l’arduo compito di incidere sulla tua schiena alcuni dei nomi da te raccolti.
Si è trattata indubbiamente di una performance carica a livello emotivo e fisico, che ha rappresentato la tua volontà di farti testimonianza vivente per quelle persone decedute nel periodo e nei luoghi della tua permanenza a Milano. Ci puoi raccontare cosa ti ha spinto a concepire questo lavoro e quali sono state le tue intenzioni?
Quando sono arrivato a Milano, sono rimasto sbalordito dal rinvenire così pochi manifesti in giro; infatti, essendoci il divieto di affissione, si possono trovare solo sotto casa del defunto. Non è di certo come dalle mie parti; così nelle mie passeggiate, uscite la sera e giri in bici ogni tanto mi è capitato di trovarne qualcuno.
Milano è stata la città che mi ha dato per la prima volta la possibilità di far conoscere la mia pratica artistica, dato che prima di Viafarini i lavori che facevo li esponevo in casa o nella terrazza dei miei genitori a Taranto.
A ogni modo è stata la città dove ho sentito di aver iniziato qualcosa, qualcosa che mi ha fatto sentire rinato, anzi direi nato, dato che nessuno può ricordarsi quel primo momento. Dunque, volevo che l’inizio del mio percorso in questa città fosse un omaggio a chi nel mio stesso periodo finiva il suo viaggio sulla terra, come a essere testimone del loro passaggio e loro del mio. Ho sempre dato una grande importanza all’atto del respirare in quanto ritengo che quell’ultimo respiro di una persona morente possa dare aria al mondo intero. I loro ultimi respiri mi hanno dato aria per pensare, continuare i miei lavori, e parlare con le mie idee. Ho voluto che la mia schiena si facesse lapide, in un tentativo transitorio di ridare vita a loro attraverso la mia carne pulsante di vita, a cui un giorno toccherà lo stesso destino. Mi piace intendere un lavoro come un tentativo, in quanto non credo di avere, così come nessun altro essere umano, alcuna verità assoluta da dispensare, né possiedo la convinzione di creare qualcosa: al massimo la costruisco, la distruggo o la ristrutturo.
Una performance di questo tipo lascia inevitabilmente un segno anche in chi la compie. Come ti sei sentito nei giorni successivi?
I giorni dopo la performance sono stati intensi, non avevo mai provato nulla del genere perché non avevo mai fatto qualcosa di simile, di così performativo. Infatti, come non mi considero un pittore o uno scultore, non sono neanche un performer. Per questa ragione mi piacerebbe non chiamarla performance ma un lavoro come gli altri, in quanto il mio corpo è stato trattato nello stesso modo in cui avrei lavorato a un pezzo di marmo, dunque come un supporto. In ogni caso mi sono sentito completamente svuotato, nullo, privo di parole e di pensieri per qualche giorno. Man mano che l’inchiostro si cicatrizzava sul mio corpo la mia mente riprendeva a ragionare, fino a realizzare quanto fosse stato importante e sincero quel gesto. Devo ringraziare Jacopo Benassi: ha deciso lui come tatuarmi, sia la mia posizione a muro, in piedi, come se fossi parte dei miei stessi lavori, sia per le foto meravigliose che ha realizzato. Ma c’era da aspettarselo, è un artista immenso.
In alcune foto le braccia sono completamente alzate per agevolare l’azione oltre che per il dolore, ricordava quasi la flagellazione di Cristo; mi piace pensarla così, mi piace pensare che l’opera d’arte sia un sacrificio, oltre che un atto di profonda fede.
A cosa stai lavorando adesso? Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto lavorando a dei nuovi progetti. Posso dirvi che in occasione di una mostra che si terrà a fine giugno presenterò un grande lavoro interamente incentrato sulla figura di mio nonno Nicola, su ciò che eravamo, ciò che mi ricordo di lui ma anche ciò che non ricordo più nonostante il breve tempo trascorso. Per il futuro si vedrà. Più che dire cosa voglio potrei affermare con certezza quello che non voglio e dunque perseguirò rapporti professionali solo con persone realmente interessate al mio lavoro. Il resto del tempo lo dedicherò al mio collettivo Friche, una via di fuga serena dai cattivi pensieri oltre che un luogo sicuro dove sentirmi a casa.
Questo contenuto è stato realizzato da Alessandra Abbate per Forme Uniche.
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