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Sulla Biennale di Venezia del 1924

FELICE CASORATI, Meriggio, 1923, cm. 130x120

 

EN ATTENDANT…
XIV Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, 1924

Il frontespizio del Catalogo della XIV Esposizione Internazionale D’Arte di Venezia, 1924

 

Mentre si sprecano i commenti perlopiù positivi sulla recente nomina di Bartolomeo Pietromarchi (già Direttore del Macro in Roma con buoni risultati) alla curatela del Padiglione Italia in occasione della prossima Biennale veneziana, curatela che si prevede, secondo quanto già annunciato dallo stesso Pietromarchi, come un’analisi, secondo specifici temi, delle correnti artistiche più significative dagli anni ’60 del secolo scorso a oggi, prediligendo i nomi affermati più che le promesse, mentre – insomma – si scatena già la “ciàcola da bienàl”, potrebbe forse giovare cavalcare l’onda del ricordo (meglio: dell’archivio) e illustrare ai lettori – con svelta carrellata – gli usi e i costumi di una Biennale passata (antica) che sembra essere, negli intenti espressi da Presidente, Consiglio direttivo e Giuria d’allora, assai vicina ai presunti propositi di un “rinnovamento d’intelletto nella sobrietà” che ci pare auspicabile dopo l’abbuffata priva di coerenza delle ultime stagioni lagunari in zona franca italica.

Importante per i risultati conseguiti per l’arte italiana e per le opere esposte fu – a memoria d’uomo – l’edizione del 1924, la XIV, che già auspicava futuri gloriosi e rinascite delle arti visive (tutte!) sotto l’egida di una “nuova era”, lontana tuttavia da quel Futurismo interventista in ogni senso che aveva in parte (a quel tempo) consumata la sua prima parabola. E’ singolare osservare proprio come l’ “anti-artisticità”, la ribellione alla forma del Futurismo non trovava accoglienza nell’esposizione delle esposizioni. E, in un certo senso, sembrava già
cosa passata.

Presidente dell’edizione del 1924 era Giovanni Bordiga e Consiglieri Beppe Ciardi, Ilario Neri, Edoardo Rubino, Attilio Selva, Ettore Tito, mentre Vittorio Pica fungeva da Segretario generale. Ma la Giuria costituiva la punta di diamante dell’Esposizione: Felice Casorati, Plinio Nomellini, Alessandro Pomi (pittori), Domenico Trentacoste, Jules Van Biesbroeck (scultori), Edgar Chahine (incisore) e Vittorio Pica (scrittore d’arte).

Dal “Verdetto” in Catalogo, ecco un passo saliente, se pure asciutto e succinto, della nota della Giuria: “Crediamo che le 233 opere accolte (ne furono presentate 1671) siano degne dell’importanza delle Biennali veneziane, e siamo lieti di affermare che qualcuna di esse, che rappresenta lo sforzo generoso di giovani artisti, dà veramente confortante motivo a molto bene sperare nell’avvenire dell’arte italiana”.

Questo è quanto: e ben lontane sono, le pacate parole di questi personaggi illustri, dal rumoreggiare scomposto e immotivato delle odierne edizioni. Le opere furono suddivise in “generi”: Pitture, Sculture e Bianco e Nero. La maggioranza di esse furono collocate nell’odierno Palazzo delle Esposizioni (allora, “dell’Esposizione”), che annoverava fra le diverse sale una personale di Armando Spadini e una di Umberto Bellotto con i suoi vetri imprigionati dai sinuosi ferri battuti, una di Edgar Chahine, una rassegna di “Sei Pittori del ‘900” a cura di Margherita Sarfatti, le personali di Casorati, Bezzi, Scattola, Fragiacomo, Oppi, Induno e Valeri, i padiglioni del Giappone, degli Stati Uniti, della Romania e una vasta rassegna di arti decorative con l’importante presenza di Galileo Chini.

Fuori di Palazzo, nei Giardini, erano le ancora poche, ma molto attese, rappresentanze internazionali di Spagna, Belgio, Olanda, Ungheria, Francia, Gran Bretagna, Germania e Russia, la quale godrà di un ampio supplemento al catalogo ufficiale, ricco sia per quantità di opere esposte sia per generi (oltre a pittura e scultura, ceramica e arti decorative diverse, quali la manifattura della cartapesta laccata, di guantiere e stoffe, ecc.).

Nel Vestibolo del Palazzo dell’Esposizione era la Segreteria e il sempre compianto Ufficio Vendite. Il fil rouge è decisamente ancora la corrente epigone di tutti gli impressionismi, con una forte, fortissima presenza di opere e memorie del nostro Ottocento: Zanetti-Zilla, Alessandro Milesi e Teodoro Wolf-Ferrari la fanno da padrone un po’ ovunque e non molleranno la presa per diverse edizione a venire.

Ma se è vero che la figura non lascia il campo ad alcuna sperimentazione, occhieggiano già, fra i ritratti un poco mesti di Troccoli e Pizzirani, le composizioni che (come si è detto, ignorata la lezione futurista) annunciano il primo sentore di un “ritorno all’ordine” e di una potente stagione severa con cenni di realismo magico e metafisico. E, così, è particolare “Il Crollo”, la grande opera di impronta simbolista cui si converte per l’occasione un pittore altrimenti noto per il pennello profondamente ancorato alla misura ottocentesca di Wolf-Ferrari e Pomi, Vincenzo De Stefani, cui fa eco lo strepitoso “Meriggio” di Felice Casorati (presente con una personale curata da Lionello Venturi, il quale, descrivendo quest’opera, parlerà di “una consistenza di volume che s’identifica con la profondità della tinta”), che sarà acquisito in questa Biennale dal Museo Revoltella di Trieste.

VINCENZO DE STEFANI, Il Crollo, 1923
FELICE CASORATI, Meriggio, 1923, cm. 130×120

 

Ma colpisce anche una particolarissima “Composizione” di Pompeo Borra, raffigurante tre amiche sedute in un paesaggio metafisico e classicheggiante, che riprende il tema imperante della ricerca del volume come scansione della partituradell’opera e promotore di una nuova poetica lontana dall’astrattismo già nato. Così ancora appare, con un gesto, tuttavia, assai più personale e ancora oggi da rivalutare appieno, il bellissimo, sognante, “In tram” del 1923 di Virgilio Guidi, che verrà qui acquistato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, su segnalazione di quella Margherita Sarfatti del cui protagonismo in questa Biennale parlerò più diffusamente fra breve.

VIRGILIO GUIDI, In Tram, 1923

Il volume come asse portante della figurazione; il volume che, da Cézanne, può generare esiti diversi dall’astrazione e farsi chiave di volta di un arcaismo in pittura ormai inteso come “terra di valori” artistici e filosofici.

In questo senso, straordinariamente importante appare la presenza della mostra dei “Sei Pittori del ‘900”, coloro che incarnavano le nuove idée dell’arte teorizzate a Milano nel 1922 con il gruppo “Novecento”, le cosiddette “deità profughe” come le chiamò poeticamente Margherita Sarfatti che già coltivava da qualche tempo la vorace rivoluzione artistica che avrebbe intriso della sua prima orma gli anni a venire, sino a quando un imbelle ostracismo confinò la geniale storica e promotrice delle arti nostrane fuori dai confini d’Italia.

Con questo passo sarfattiano, la Biennale esce dalla rappresentazione regionalistica e ordinata delle arti nazionali, dallo scrupolo della compilazione, dall’inutile dispendio espositivo per approdare finalmente a una selezione accurata e condotta a discapito della passata “fungaia degli imitatori di chiunque – italiano o, più volentieri, straniero – avesse ottenuto un qualche successo alla Mostra del biennio precedente” (CATALOGO XIV ESPOS. INTERNAZ. D’ARTE, 1924; Sala 22, Margherita Grassini Sarfatti, Mostra di “Sei Pittori del ‘900”, pag. 76).

C’è da meditare, in particolare rivolgendo il pensiero alla disgraziatissima ultima edizione del nostro Padiglione. Non pare a tutti? Il fatto è che, per selezionare con esiti di caratura, bisogna esserlo, della genìa dei selezionatori di caratura… Gli artisti coinvolti in questa XIV Biennale dalla grande critica sono condotti, pur dalla diversità d’esperienze maturate (quasi tutti all’ombra dell’Impressionismo francese), verso un nuovo ideale di concretezza e semplicità, che risale a quelle origini primitive cui tutti tenderanno, Funi più d’ogni altro, forse, per il suo pennello intriso di Quattrocento ferrarese e per la sua maggiore gioventù rispetto ai colleghi (è del 1890 ed è tangenziale alle ultime propaggini artistiche dell’Ottocento).
Tutti sono, nella penna sarfattiana, sommamente “obbiettivi”. L’obiettività assurta a parametro poetico.

I “Sei” sono: Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig (il più legato ai sentori dell’Espressionismo nordeuropeo), Mario Sironi, che partecipa con un quartetto d’olii da levare il fiato:  “L’allieva”, “L’architetto”, “Figura”, “Venere (nudo con fruttiera)” quest’ultima opera oggi alla GAM di Torino.

MARIO SIRONI, Venere (Nudo con fruttiera), 1923

Dalla chiusa del passo critico della Sarfatti: “Questi nostri pittori, si può obiettare, non toccano ancora il punto dove lo sforzo dell’arte si dissolve e scompare tutto nella magia evocatrice delle immagini e dei sentimenti. A tale vertice non è dato giungere d’un tratto. La preoccupazione della tecnica, come di un mezzo e di un linguaggio ancora troppo greve, in parte soverchia – è vero – la cura delle cose da dire: ma solo attraverso la conquista di un linguaggio tecnico nobilmente ordinato e perspicuo, i sentimenti e i concetti possono trovare espressioni di umanità e di limpida bellezza”.

Molti spunti potrebbero emergere da questa poderosa Biennale d’antan, metafore del presente, così come da quelle immediatamente successive. Come nota di colore (ma non troppo peregrina), ad esempio, valga ricordare in Catalogo dell’edizione del 1930 (la XVII), con giurati come Wildt, Oppo, Carena, Beppe Ciardi e Antonio Maraini, il sommo fastidio per il malcostume ormai endemico delle raccomandazioni, il quale “non accenna a scemare”, ma per non averne detta Giuria tenuto alcun conto, ci “si augura possa costituire per l’avvenire un sano precedente e un efficace monito” (CATALOGO XVII ESPOS. INTERNAZ. D’ARTE, 1930, Il Verdetto della Giuria, pag. 18).

Neppure Wildt poté così tanto…

La Biennale del 1924 costituisce un’innovazione senza squilli di tromba, una rivoluzione interiore, sotterranea, ma totale. Intorno a quel piccolo (ormai non così poco folto) drappello di giovani “tecnici” si andava costruendo la nuova misura italiana, quella che, se non fosse stato per la rovinosa vicenda di una tirannide che portò la Nazione alla distruzione, e con lei le arti e i mestieri dei migliori – segnati per decenni, se non anche oggi, da una connivenza spesso più di facciata che di sostanza con il Ventennio -, sarebbero stati i più grandi – non ho alcuna difficoltà né ripensamenti a scriverne – in Europa e, per allora, nel mondo.

Una geniale critica, un approdo sicuro ai Giardini, una gara internazionale che pretendeva novità ma anche qualità dopo la parabola della fine dell’Ottocento francese. Tutto ciò poté stimolare la formazione di una cifra che si compattasse, nel riafferrare le radici della nostra cultura, intorno al sentimento di ricostruzione, ancora vincente, dopo la dolorosa ma onorevole esperienza della prima Guerra Mondiale.

Un milieu che non ritroveremo mai più in Italia negli anni a venire, sopraffatti dalla bulimica violenza della retorica in un senso prima e in un altro dopo il Secondo conflitto bellico; una qualità e una frenesia degli scambi di opere che pochi espertissimi sceglievano per i musei e le collezioni che avevano l’onore di “seguire” (non di “governare”).

Bei tempi andati? Come sempre appare presaga questa lettura a posteriori di un costume che si ripete ciclicamente, di un vento di volontà di rinascita dopo il tifone che tutto distrusse e che ancora soffia (più che mai) da queste parti. Ma è passata davvero troppa acqua sotto i ponti. E le rivoluzioni silenti, quelle più profonde, quelle che davvero cambiano gli obiettivi, le funzioni, gli spiriti, forse, non fanno più per noi e per il nostro secolo senza ombre, tutto luce, tutto esposto, tutto già osservato, senza più misteri.

Un augurio al Professor Pietromarchi di ascoltare questa antica lezione e questo stile inimitabile, rileggendo con attenzione il polveroso e minuto catalogo del 1924 che troverà certamente in uno dei ricchissimi scaffali dell’Archivio dell’Esposizione d’arte più importante al mondo.

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