Racconta Pietro Marcello – protagonista di Soggettiva, la linea di programmazione che il Cinema di Fondazione Prada dedica ogni mese a un regista diverso – come la sua carriera da cineasta sia decollata quasi per caso, quando il suo cortometraggio Il cantiere (2004), realizzato con appena 500.000 lire, venne candidato a sua insaputa al premio Libero Bizzarri, vincendolo.
I budget limitati contraddistinguono anche altri successivi lavori del regista casertano, tra cui Il passaggio della linea (2007), prodotto con 5000 euro, e La bocca del lupo (2009), costato 30.000 euro e commissionato dai Gesuiti della Fondazione San Marcellino di Genova. La pellicola, vincitrice del Torino Film Festival come miglior film e del David di Donatello come miglior documentario, narra una vicenda ambientata nella Genova più povera e nascosta, catturando una realtà tanto misera quanto poetica e commovente. È in questa occasione che Marcello inizia a collaborare con la montatrice Sara Fgaier, autrice di insoliti accostamenti tra voice-over, interviste, materiali d’archivio e immagini documentarie. Proprio a un montatore, l’armeno Artavazd Pelešjan, è dedicato quindi ll silenzio di Pelešjan (2011), sorta di “diploma morale” di un auto-didatta, come sottolinea il regista stesso. Quanto sia importante il montaggio nel cinema di Marcello emerge dall’assenza, nei suoi film, di una vera e propria scrittura, strumento considerato dal regista come “incompleto” in quanto soggetto a numerosi compromessi e imprevisti che inevitabilmente si verificano durante le riprese: “il montaggio è la parte più adrenalinica oltre che la vera sceneggiatura di un film” spiega Marcello in occasione della serata inaugurale della Soggettiva di febbraio.
Con Bella e perduta (2015) Marcello introduce per la prima volta la finzione: nato come inchiesta, il film racconta la storia vera del custode volontario dell’abbandonata Reggia di Carditello, Tommaso Cestrone. Dopo la sua morte la maschera di Pulcinella, che nella tradizione napoletana fa da intermediario tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, torna sulla terra per portare in salvo Sarchiapone, bufalo rimasto orfano del padrone e destinato al macello. Lo step successivo è rappresentato da Martin Eden (2019), che vede la partecipazione di Luca Marinelli nei panni del protagonista della storia scritta nel 1909 da Jack London. Il film, presentato in concorso alla 76esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, può per la prima volta contare su un budget significativo, superiore ai 4 milioni di euro. Il metodo di lavoro del regista e la sua concezione del proprio ruolo tuttavia non mutano: si considera ancora un artigiano più che un artista, mantenendo saldo il legame fisico con la macchina da presa. Sceglie di lavorare ancora con la pellicola, a costo di impiegare rulli Fuji scaduti – e quindi sottoesposti – per le riprese in interni.
Marcello realizza altri due documentari prima di giungere alla sua ultima produzione, Le vele scarlatte (2022). Presentato in apertura della Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2022, il film presenta una storia di emarginazione ambientata in Picardia tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Tra i protagonisti Jean (Louis Garrell), “principe azzurro” che, giunto nel villaggio a bordo di un aeroplano, sembra destinato a sedurre e portare via con sé Juliette (Juliette Jouan). Favola moderna intrisa di realismo magico, dove la figura emancipata di Juliette non rispetta i canoni di narrazione tradizionali per un personaggio femminile – rinunciando a una fuga d’amore pur di non abbandonare le proprie radici –, la pellicola mette in scena la crisi dei ruoli e delle certezze tipica della nostra contemporaneità.
Abbiamo rivolto alcune domande al regista, in occasione della proiezione di Le Vele Scarlatte, primo film della Soggettiva dedicata a Pietro Marcello nell’ambito della programmazione che il nuovo curatore Paolo Moretti ha firmato per il Cinema di Fondazione Prada.
Le vele scarlatte, un titolo fortemente evocativo. Lei da giovane avrebbe voluto diventare pittore, è così?
Esatto, il cinema è per me un felice “ripiego”. Dipingere mi appassiona ancora oggi, spero anzi un giorno di fare ritorno alla tavolozza. In fondo si torna sempre al punto di partenza.
Pensa si possa riscontrare un influsso del suo passato di pittore sul modo con cui costruisce le sue inquadrature?
Non più, accadeva forse quando ero giovane. Dietro ogni mio film c’è sempre un lavoro propedeutico, volto soprattutto a definire l’apparato iconografico. La mia fortuna è stata quello di avvicinarmi al cinema attraverso l’utilizzo in prima persona della macchina da presa. Senza questo stretto legame, per nulla scontato per un regista cinematografico, non sarei mai riuscito a costruire il mio percorso professionale.
In concreto, qual è stato il suo primo approccio alla regia?
Tutto è cominciato con i documentari, con piccole inchieste. A quei tempi a Napoli, con Maurizio Braucci, con cui collaboro da sempre, capii che le inchieste erano il modo più semplice e diretto per iniziare a lavorare con la cinepresa. Quel periodo è stato una scuola per me importantissima, dove da auto-didatta ho imparato le basi del linguaggio cinematografico. A quei tempi mi nutrivo di cinema, guardavo i film girati da altri per comprendere il loro metodo di lavoro e costruire il mio.
Qual è il suo metodo di lavoro?
Il mio non è necessariamente un cinema estetico, in quanto la forma senza contenuti non serve a nulla. In generale quando dirigo un film cerco di non stare “al centro”, di non imporre la mia visione a tutti i costi, nel tentativo di avere uno sguardo quanto più aperto e meno miope possibile. In fondo, il cinema è un processo collettivo e artigianale, è importante non dimenticarselo.
Pensa che il processo di innovazione tecnologica abbia reso il cinema più democratico ed accessibile per i giovani registi?
Oggi si può tranquillamente girare un film anche con un telefonino, quello che conta è come si compone. Facendo un viaggio negli archivi, strumento dalle potenzialità enormi che spesso impiego nei miei film, ci si può rendere conto di come sia cambiato il mondo dal punto di vista della cinepresa. Un tempo la macchina era pesante e quindi inevitabilmente fissa, la relazione con la pittura era fortissima. Da un lato i mezzi tecnologici di oggi hanno raggiunto vette inimmaginabili, dall’altro hanno distolto il focus dalla composizione, facoltà di cui oggi gli operatori di macchina sono del tutto sprovvisti. La profondità, le prospettive, i diversi livelli e piani oggi vengono confusi l’uno con l’altro.
Qual è a suo avviso il destino della visione in sala? Pensa che la formula adottata per la nuova programmazione del Cinema di Fondazione Prada, in qualche modo simile a quella di un festival cinematografico, possa essere di richiamo per il pubblico?
A mio modo di vedere di festival ne esistono fin troppi, così come di film prodotti ogni anno. Il fatto che le sale oggi scompaiano, e con esse il cinema – il cinema è la sala –, è una responsabilità innanzitutto di noi registi. Spesso invece si tende a colpevolizzare lo spettatore, dimenticandosi che quest’ultimo, all’esperienza cinematografica andrebbe introdotto ed educato. I surrealisti sostenevano che la gente va al cinema per rubare emozioni negate alla propria vita quotidiana. Quello che manca oggi è la condivisione dell’esperienza cinematografica: un cinema come quello di Fondazione Prada dovrebbe essere attivo tutti i giorni, diventare un luogo di riferimento e aggregazione, e come questo molti altri. Truffaut diceva che il cinema è riempirsi la vista!
Cosa rappresenta per lei il materiale d’archivio, così spesso presente nei suoi lavori, come in Bella e perduta (2015), dove questo viene montato all’interno di un racconto di finzione?
In effetti sono archivista tanto quanto sono regista. Mi appassiona far diventare “archivi” i miei stessi film, riutilizzando e reinventando immagini già esistenti. In fondo il presente non è altro che un riflesso deformato del passato…
…e il futuro?
Per immaginare il futuro servono utopie, che sono importanti perché ti permettono di sognare, di immaginare un mondo diverso. Al tempo stesso dovremmo imparare a dire no: il problema è che oggi tutti, sia i padroni che i servitori, dicono di sì a tutto.