Perché eravamo sorelle e qualche volta ci amavamo. Mia sorella maggiore veniva a trovarci una volta l’anno durante il mese più caldo. Una mattina la trovai a bere del latte, appena munto dal nostro contadino. Seduta accanto alla finestra, mia sorella osservava decine di libri. Pagine e pagine di stampe, parole e parole da stampare nella memoria. La vita si può riassumere tutta sulla luce che entra dalle nostre finestre, che si distende calda, soffice sul tappeto. Il vaso di fiori non attende altro che la pace del risveglio. L’acqua non è mai sufficiente per riempire un amore. Serve la luce per vedere quanta acqua sia rimasta. Serve attenzione per colmare ogni assenza. Sono una piccola bambina con un orologio al polso che ascolta una storia mai dimenticata: cosa rimane di noi sopra una scacchiera?
Papà ci insegnò il gioco degli scacchi. Lo fece giornalmente, come se dovesse essere l’ultimo ammonimento. E così fu. Se ne andò come un pedone avanzato. Sacrificato, uno di quei pedoni che non ambisce a diventare una regina. Quel pedone che improvvisamente conosce la morte perché ha compreso la sua via. Mi bastò un cenno e mia sorella si alzò dalla tavola, portandosi dietro un grande libro, tenendolo davanti a sé. Sempre stata una grande studiosa. Anche nei momenti di probabile divertimento, un libro aperto le ricordava, come una campana domenicale, che la perseveranza era una sorta di bibbia dove tutto si spiegava. Da dove tutto si dispiega, fino alle grandi orecchie dell’universo.
La scacchiera è una tavola. Un libro compatto nel quale, ogni volta, si istituisce un consiglio. Mia sorella mise in ordine i pezzi. Feci lo stesso. Abbiamo imparato le regole anni fa. Abbiamo giurato di rispettarle tempo dopo. Ogni pezzo ha un significato. I bianchi e i neri. Non esistono vie di mezzo. La giusta misura deve essere un’aspirazione non una ricerca ossessionata. Così il gioco cominciò.
Osservate. Siamo sedute qui da secoli, a meditare ferocemente a come affrontare l’ultimo colpo che finalmente arriverà. A distruggere l’altro per sempre. Esistono delle regole. Poche ma importanti regole. Ci deve essere luce. Ci deve essere una fine. Io sono una piccola bambina con un orologio al polso e ho capito la grande lezione di papà. Quelle lezioni che non vengono enunciate o trascritte sulla lavagna. Sono parole, forse mai pensate, sensazioni. Suoni di cicala impercettibili dentro l’estate di una gigante pineta. Gioca lento, gioca veloce. Pensa piano, pensa veloce. Gioca ma non pensare che sia la prima partita. Pensa ma non giocare con i sentimenti. Gioca e compensa ogni mancanza con l’intuizione. Pensati in un parco con tua sorella maggiore, con migliaia di libri scendere dal cielo e i fiori finalmente scendere dalle tavole dei salotti e delle cucine, delle case e dei ristoranti, dei bar e dei fiorai. Ogni legno sarà un parquet dove riposare. Ogni alfiere bianco potrà salutare ogni alfiere nero. Nessuno più si arroccherà perché è norma prima difendersi che percepirci. E si sentiranno passi d’amore, tacchi in festa venire dalla porta, quella che si apre accanto al divano verde, quello di una nonna scomparsa. Pensati come la più importante comparsa. Pensati come un cavallo sulla scacchiera. Consapevole dei limiti, evita i bordi e corri come l’unico che può vedere dall’alto. Guardaci dall’alto. Tutti assieme i fiori, come pedoni, arriveranno splendenti verso te. Boccioli di colori e noi seduti al sole del mattino e saremo seduti quando arriverà la sera. Resta seduto qui a riposare, questa solitudine non mi lascerà in pace, ascolta: mia sorella due mila miglia ha vagato solo per giocare questa partita, ora. Sono solo che la bambina con un orologio al polso, seduta sul molo della baia, perdo tempo osservando ogni marea andare via. Perdo tempo perché c’è mia sorella e non è ancora tempo di finire questo gioco. Il gioco di una canzone che fa:
“Si rallegra ogni core./Sì dolce, sì gradita / Quand’è, com’or, la vita? / Quando con tanto amore / L’uomo a’ suoi studi intende? / O torna all’opre? o cosa nova imprende? / Quando de’ mali suoi men si ricorda?”