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L’arte? È una cosa seria. Intervista a Luca Beatrice

Luca Beatrice Luca Beatrice
Luca Beatrice
Luca Beatrice

Il nuovo presidente della Quadriennale di Roma parla delle linee guida del suo mandato. Non ci sarà un direttore artistico?

Fervore, curiosità e dibattiti si animano intorno a Luca Beatrice, appena scelto come nuovo Presidente della Fondazione Quadriennale di Roma, la celebre istituzione nata nel 1927. Curatore, docente, giornalista, già presidente del Circolo dei Lettori di Torino, Beatrice succede al mandato di Umberto Croppi e alla direzione artistica di Gian Maria Tosatti. In una generosa conversazione il Presidente ci svela le sue idee sul panorama artistico e culturale italiano, commentando ciò che è stato fatto, ciò che manca, ciò che abbonda, con un focus sulle priorità e i rinnovamenti necessari all’arte italiana, tra reti da costruire e visioni plurali.

L’arte italiana sembra evolversi velocemente e in molte direzioni. C’è grande fermento tra giovani artisti e curatori. Quale sarà il ruolo e quali i nuovi obiettivi della Quadriennale in questo orizzonte?
Giusta l’osservazione che hai fatto: anche io registro questo fermento a partire dalle Accademie dove insegno, e anche in generale. Si è passato bene questo periodo post-Covid e mi pare ci sia parecchia voglia di fare, un fatto positivo. È presto per dire dove arriverà la Quadriennale, ma penso che – giunti al 2025 – sarebbe interessante tentare un primo bilancio di che cosa è stata e che cos’è l’arte italiana in questo primo quarto di secolo.

Ancora prima di mettersi a tavolino per fare un bilancio, secondo te che cosa manca e che cosa abbonda nel panorama italiano contemporaneo?
Abbondano i musei che sono diventati un luogo ormai centrale in tutta Italia. Poi noi siamo un Paese senza centro: Milano, Napoli, Roma, Torino, Venezia possono tranquillamente aspirare al ruolo di Capitale dell’arte in Italia, in più c’è il ruolo della provincia che è altrettanto importante. Quello che manca, forse, è un po’ di coraggio. Bisognerebbe non viaggiare con la sindrome della valigia di cartone, perché noi siamo una grande scuola artistica e culturale nel mondo e dovremmo provare a proporci in una maniera un po’ più convinta. Ci sono pochissime presenze di artisti italiani nelle mostre internazionali, questo mi preoccupa un po’.

 

Villa Carpegna, sede della Quadriennale
Villa Carpegna, sede della Quadriennale

A proposito di estero…Da una parte mi sembra che nell’aria si respiri una pressione sempre maggiore a creare una rete tra le istituzioni artistiche italiane e quelle straniere. “Stranieri ovunque” è il titolo della Biennale di quest’anno. D’altro canto però, sembra che interrompere un dialogo con l’estero risulti una scelta conservatrice. Come si posizionerà la Quadriennale in questo senso?
La rete noi dobbiamo costruirla soprattutto con gli altri attori del palcoscenico italiano. Penso a Pietrangelo Buttafuoco per la Biennale, penso ad Alessandro Giuli al Maxxi, ai nuovi direttori dei Musei, tra cui Angelo Crespi a Brera, la Mazzantini a Roma. Pensare a delle occasioni per presentarci all’estero è un’ottima idea che però va un po’ strutturata. Dobbiamo chiederci anzitutto che idea diamo della nostra arte, della nostra cultura, per questo fare rete in Italia è essenziale. Il dialogo internazionale è importante, ma va fatto in maniera significativa. Ho visto spesso negli istituti italiani di cultura o nelle rappresentanze italiane all’estero delle cose un po’ casuali. Non mi sta bene, ad esempio, che la mostra del signor Rossi all’estero sia stata fatta perché magari c’era un contatto con l’ambasciatore del posto… Questo no.

Parlando di iniziative italiane…Gian Maria Tosatti, allo scadere del suo mandato, con il ciclo di mostre “Quotidiana” a Palazzo Braschi, ha costruito un progetto ambizioso di indagine dell’arte italiana tra artisti emergenti e affermati, che forse però avrebbe avuto bisogno di maggior tempo per poter dare i suoi frutti. Cosa pensi di questo progetto? La Quadriennale ne prenderà le distanze o continuerà la linea di ricerca condotta?
Sono d’accordo sul fatto che sia stato messo in campo un lavoro molto capillare, seppure un po’ di nicchia. La Quadriennale per sua vocazione ha bisogno, ogni quattro anni, di esperirsi in una grande mostra che abbia come obiettivo riportare al centro il pubblico, un pubblico grande, non solo di addetti ai lavori. Penso che sia interessante anche provare a immaginare di far vedere l’arte italiana all’estero, interrogandosi su cosa mostrare, quale idea di arte, o meglio, di cultura italiana presentare in questo momento.

Ma questo non rientrava anche nelle intenzioni di Tosatti?
Sì, probabilmente è vero, infatti non si butta mai via il lavoro degli altri. Però ritengo che più che pensare ad una serie di micro-eventi ora ci sia soprattutto il bisogno di concentrarsi sulla grande mostra di Quadriennale, che deve essere realizzata necessariamente entro il 2025. Non abbiamo tanto tempo. Poi non escludo che si possa tornare a formule più circostanziate…

 

Gian Maria Tosatti al CIAC, Foligno
Gian Maria Tosatti

Osservando le mostre italiane sembra che nel mirino non ci sia più grande spazio per un tipo di arte che vada studiata per essere capita, in una virata a tutto pop, con derive verso quella che gli addetti ai lavori definiscono ironicamente “arte accessibile”. Alcuni ritengono che nell’idea insistita che l’arte debba essere “per tutti” si stia verificando un appiattimento generale…
Dovrei pensarci, è una tesi interessante. C’è una sorta di forchetta tra quelle situazioni un po’ alla affordable art che neanche a me piacciono molto – perché l’arte va studiata, l’arte è una cosa seria – e quelle situazioni in cui un certo elitarismo concettuale sembra aver fatto il suo tempo; un dato che, per altro, ad Artissima si coglie molto bene. Io farei un distinguo tra artisti bravi, opere riuscite e qualcosa che invece avrebbe ancora bisogno di una certa definizione. Ad ogni modo sì, assolutamente, ho notato anch’io che per arrivare a tutti l’arte ha una tendenza ad appiattirsi.

Recentemente hai dichiarato che la figura del direttore artistico all’interno del sistema Quadriennale è superflua. Perché?
Ovviamente di tutto questo si dovrà discutere con il CdA, con i ministri, ma io ho in mente che vada ripristinato un po’ il ruolo di commissario. Voglio lavorare con una visione plurale. Non do un intero mandato a Sara, a Gian Maria o ad un altro per dirgli “fai tutto tu”, perché se poi uno sbaglia siamo nei pasticci… Mentre se mi affido a dei professionisti che stimo, a dei commissari che abbiano anche visioni ed età diverse, intanto non ce li ho a libro paga per quattro anni, ma soprattutto, con un minimo di regia, si può offrire una visione unita, ma plurale, in modo da non produrre quattro o cinque mostre ognuna slegata dalle altre. La pluralità tra l’altro è sempre stata una vocazione della Quadriennale. Pensa a quella prima di Cosulich… Lì c’erano dieci curatori, che forse sono anche un po’ troppi però, ecco, il ruolo del direttore artistico mi pare superfluo in questo senso. E poi a me piacerebbe anche implementare nuove professionalità nel campo dell’arte. Mi prendo questi quattro anni – al di là della mostra – anche per lavorare con persone giovani. Non solo curatori, artisti, ma anche giornalisti, comunicatori, tecnici di vari settori. Mi piacerebbe pensare alla Quadriennale come a un punto di raccordo di tutta una serie di esperienze con delle docenze, delle borse…

A proposito di grandi mostre: la rassegna di Quadriennale “Fuori” (2020) è stata molto dibattuta. Addirittura chi come me tra altri, aveva osato parlare di “bellezza” era stato ricoperto di strali. In merito ricordo in particolare l’accanita contrarietà di una voce di Flash Art. Anche secondo te il concetto di bellezza è un tabù nell’ambito del contemporaneo?
No io non credo che sia un tabù. Sono convinto che l’arte vada alla ricerca di tante cose insieme all’idea del bello, che appartiene all’estetica di tutti i tempi. Certo, il concetto di “bellezza” non è semplice da definire e forse l’arte oggi non è solo questo: gli si richiede dialogo e di essere incisiva, il pubblico è molto cambiato, così come lo sono gli attori del sistema. Ma assolutamente la bellezza non è un concetto da mettere all’angolo e, visto che hai citato la mostra di Sara Cosulich, anche io l’ho trovata molto stimolante, con delle idee interessanti, benché sfortunata a causa del Covid.

 

Luca Beatrice
Luca Beatrice

In che rapporti sono, secondo te, arte e politica? Non ti sembra che, in sottoparlato, ci siano schieramenti, guerre fredde, maschere, obblighi dettati dal politically correct?
Arte e cultura sono sempre state legate alla politica, anzi direi che l’arte è un’espressione della politica e politica. E oggi non ci sono differenze rispetto al passato. C’è un ricambio generazionale della classe politica, ma questo non è legato all’espressione, semmai può essere legato alle figure che sono responsabili di questo passaggio, ma questo non influenza direttamente la costruzione di un’opera. Non vedo artisti schierati, poi se un museo viene diretto da una personalità di centro destra o di centro sinistra, questo rientra nella logica delle cose. Il fatto che progetti nei quali non siano coinvolte abbastanza donne o non si affrontano determinate tematiche, vengono criticati, viene più dal mondo americano… Dal quale, in effetti, non siamo del tutto immuni. Basti guardare alla scorsa biennale, quella di Cecilia Alemani, che per altro è metà americana. Lo stesso farà Pedrosa, forse, rispetto a certi risarcimenti. Che si dia opportunità di farsi notare a persone e mondi che non sono stati ancora visti secondo me è positivo, che diventi un’ossessione no. In un mondo ideale sarebbe bello se si desse importanza soltanto a chi ha davvero valore, ma sai che spesso non è così…

Parliamo di Roma, Città Eterna e Capitale. In molti sostengono che non sia esattamente al centro della scena artistica italiana, che ci sono poli culturali ben più animati. Tu che ne pensi?
A me Roma pare buona e lo dico da torinese. Torino si porta dietro una delle fiere d’arte più importanti d’Italia, ma trovo che stenti, in questo momento, con le gallerie private. Cosa che invece non registro nel panorama romano, dove spazi nuovi ce ne sono un sacco. Io trovo che la Capitale sia molto vivace in questo momento. Due anni fa sono venuto a Roma per occuparmi della mostra per Intesa San Paolo al Miart e ho visitato diversi studi di pittori romani o comunque operanti a Roma e avevo già notato una grande vivacità. Sono contento di tornare a vivere in questa città dopo tanti anni. Ci ho vissuto negli anni ’90 ed è stato un momento eccezionale. Ora sono curioso. Mi dicono molto bene della squadra di lavoro e di questo sono felice. Mi hanno parlato di una struttura estremamente agile, veloce, di quasi tutte donne. Il che depone a loro favore perché con le donne si lavora meglio, sono più intelligenti, meno egocentriche…

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