Tra le varie Biennali del mondo, fino al prossimo 5 novembre a Belém (nello stato brasiliano del Pará) c’è niente meno che la prima Biennale delle Amazzonie (Bienal das Amazônias): oltre 120 artisti che arrivano dall’area nord del Sud America, comprendendo tutti gli stati abbracciati dalla più incredibile e famosa foresta del mondo. Ma non è finita, perché dal Brasile è in arrivo anche la 35ma Biennale di São Paulo e un’altra Biennale molto particolare, dedicata al paesaggio del Sertão…
“Brasil Futuro” è il titolo della mostra che dal 1 gennaio scorso sta attraversando il più grande Paese dell’America del Sud, per mostrare i risultati di dialoghi, inclusioni e porre in luce la grande identità culturale brasiliana, da sempre composta per un universo di differenze. Tra le tappe di “Brasil Futuro”, principiata a Brasilia e arrivata in forma ampliata a Salvador, c’è stata anche la città di Belém, nello stato del Pará. Qui, fino al prossimo 5 novembre, ripristinando gli spazi di un antico supermercato nell’area commerciale della metropoli (al fianco del centro storico) c’è niente meno che la prima Biennale delle Amazzonie (Bienal das Amazônias): quattro piani di esposizione per oltre 120 artisti che arrivano dall’area nord del Sud America, comprendendo tutti gli stati abbracciati dalla più incredibile e famosa foresta del mondo: Colombia, Venezuela, Bolivia, Perù, Guiana Francese, Suriname e Venezuela, oltre al Brasile.
Sotto il titolo di “Bubuia. Acqua come fonte de immaginazioni e desideri”, la biennale è stata progettata negli ultimi dieci anni prima che, nell’ultimo biennio, si iniziasse il lavoro di ricognizione, raccolta opere e studio-visit, come ci ha raccontato una delle quattro curatrici, Vânia Leal, che ci tiene a specificare come non ci sia una pretesa di “completezza generale”, quanto piuttosto di una visione curatoriale e soprattutto della volontà di lanciare una serie di indizi che possano permettere di tracciare un percorso tra i mille intrecci che vivono nelle pratiche artistiche contemporanee dentro, fuori e ai bordi della foresta.
E dove l’acqua, appunto, è l’elemento che traccia i confini e allo stesso tempo li rompe: “Popoli indigeni, neri, latini, amazzonici, in un’unica foresta dai suoni multipli e lingue differenti, colori vibranti e paesaggi tanto incontaminati, quanto villaggi, città e megalopoli. Un numero infinito di vite separate nella loro quotidianità e nelle rispettive pratiche culturali, ma vicini nelle proprie origini e nelle sfide al futuro”, si legge nel testo generale che accompagna la mostra.
Potrebbe sembrare retorica, un enorme ammasso di “buone intenzioni” condite con i più triti degli ingredienti sull’uguaglianza e l’annullamento dei generi, e invece no: “Bubuia” è una Biennale sul serio, dove la poetica non è messa in secondo piano a favore di propagande varie ed eventuali, dove il concetto di collettivo è autenticamente vivo e non solamente un dispositivo inteso in senso politico, dove la cura, la tutela e l’educazione ad un paesaggio (nel senso più espanso del termine) sono elementi cruciali per il futuro.
E allo stesso tempo “Bubuia”, parola di origine indigena che in portoghese significa “galleggiare” in una dimensione di flânerie, un pensare rilassato, legato ad antichi saperi, é una manifestazione che appare realmente orizzontale.
«Credo che rendere visibile il potenziale politico, sociale, intellettuale e culturale della produzione artistica in Amazzonia sia una premessa necessaria. Cercare, invece, di uniformare l’arte prodotta in Amazzonia significa intraprendere la strada opposta rispetto al rapporto con la natura. Dopotutto, l’arte ci insegna a vedere e rafforza l’esistenza», ci spiega la curatrice, parte di un team tutto femminile di cui fanno parte anche Sandra Benites, Flavya Mutran e Keyna Eleison.
Tra gli altri artisti ci sono Adriana Varejão che con l’installazione In Segreto, 2003, riporta l’attenzione alla metafora tropicale della foglia come utero, riparo dall’acqua e dal sole, dispositivo per ricevere cibo; c’è Denilson Baniwa, rappresentato dalla galleria brasiliana A Gentil Carioca e che oggi in Brasile è decisamente un astro ben più che nascente con una grande installazione fatta di esche per la pesca, tutte corrisposte dalla figura di pesci colorati e bellissimi, apre a una riflessione sottile sul fascino delle trappole, in qualsiasi metafora le si voglia immaginare; c’è un omaggio commovente al Brasile profondo di Elza Lima, pioniera della fotografia del Paese e rappresentante dell’identità di Belém come città-simbolo delle immagini e del reportage nell’area latino-americana; e ci sono una serie infinita di pitture, installazioni, sculture, bandiere e fotografie che riportano a saperi ancestrali e per niente passati di moda, a leggende indigene che ancora reggono la cultura amazzonica, a cieli gonfi di acque che cambiano le linee del paesaggio nel corso di intere stagioni e, come nel caso del fotografo Mariano Klautau Filho, con la serie Amazonische Visualiteit, 2019-2023, l’autore attraversa il paesaggio di questa regione giocando con la sua profonda idenitità visuale: le foto “amazzoniche” di Klatau Filho, infatti, sono state scattate da Vienna alla Baja California, in luoghi estranei ma la cui identità visiva è legata a quella del bacino forestale.
«L’Amazzonia si trova in molti luoghi: feste, fiumi, alberi, spiagge isolate e città; d’altronde vale la pena ricordare Belém come punto di passaggio di vari gruppi ed etnie, le stesse che hanno portato qui la musica cumbia (dalla Colombia), il merengue, la salsa. La storia dell’Amazzonia è una storia di intersezioni: oltre all’immagine della foresta incontaminata, c’è anche un’Amazzonia di influenze, di ricadute in altri territori, di conoscenza condivisa», sottolinea l’artista.
E che questa Biennale, forse forte di un genius loci ancora fortissimo, è riuscita fortemente a trasmettere.
Ma non finisce qui, perché il prossimo 6 settembre aprirà a São Paulo la tradizionale Biennale, la seconda del mondo, creata nel 1951. Anche qui la curatela è collettiva: Diane Lima, Grada Kilomba, Hélio Menezes e Manuel Borja-Villel (ex direttore del Reina Sofia di Madrid) hanno immaginato “Coreografias do impossível – Coreografie dell’impossibile”.
“Per noi le coreografie iniziano con la nostra pratica, che ha come principio il tentativo di rompere gerarchie, procedure e normative messe in atto da strutture verticali di potere, in valore e violenze di dispositivi istituzionali – che, sappiamo, il mondo non supporta più”, si legge nello statement curatoriale.
Anna Boghiguian, Dayanita Singh, l’immancabile Denilson Baniwa, Ibrahim Mahama, Rosana Paulino (tra le più apprezzate artiste presentate anche alla Biennale veneziana di Cecilia Alemani, “Il latte dei sogni”), il grande modernista Rubem Valentim, Sammy Baloji, Simone Leight, Wilfredo Lam e Yto Barrada sono solo alcuni dei nomi di artisti internazionalmente riconosciuti che troveremo al Padiglione Cicillo Matarazzo. Aggiornamenti in corso.
Infine, c’è una terza biennale che da sei edizione si muove nella regione del sertão brasiliano (l’area geografica secca, che attraversa migliaia di chilometri e vari stati, dal nord al centro-est del Paese): la Bienal do Sertão, appunto.
Ideata dallo storico e curatore Denilson Santana, quest’anno la manifestazione si svolgerà su tre sedi istituzionali: Museo di Paleontologia di Crato, Cartes di Cariri e Centro Cultural Banco do Nordeste di Juazeiro do Norte, nell’area interna dello stato del Ceará. Quaranta gli artisti selezionati attraverso una open call che ha richiamato oltre 500 candidature da ogni parte del mondo. Selezionati dallo stesso Santana, con l’aiuto del curatore cearense Lucas Dilacerda, Marina Lima e dal sottoscritto, la maggior parte degli artisti partecipanti a “Educar a paisagem – ovvero Educare al paesaggio” sono giovani o mid-career, 31 provenienti dal Brasile e 9 da altri Paesi, dal Paraguai al Messico passando per Germania e Giappone.
E se a questa offerta in loco, inoltre, aggiungiamo la rilevanza che avrà il Brasile alla prossima Biennale Arte nel 2024, non ci sono dubbi rispetto alla necessità di imparare a osservare questo paesaggio. E forse a imparare che il genius loci del proprio Paese, la sua tutela e la sua promozione, non è poi da buttare a mare…