Robert Capa. L’Opera 1932-1954 è il titolo della mostra che il Museo Diocesano di Milano dedica al grande fotografo. 300 scatti ne ripercorrono la carriera, dagli esordi nel 1932 fino alla morte avvenuta nel 1954. Dal 14 maggio al 13 ottobre 2024.
Very yellow-white flash (Un forte flash giallo-bianco)
A violent wrench grips mass (Una strattonata violenta afferra il corpo)
Rips light, tears limbs like rags (Strappa la luce, lacera le membra come stracci)
Burst so high, finally Capa lands (Esplode così in alto, Capa finalmente atterra)
Con questi versi poetici gli Alt-J, un gruppo indie-rock contemporaneo, descrivono la morte di Robert Capa, uno dei fotografi più celebri della storia. Per i suoi scatti, per aver fondato nel 1947 con Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger e William Vandivert l’agenzia fotografica Magnum; per il crinale pericoloso lungo cui ha vissuto, tra guerre e conflitti, per la sua fine tragica; ma anche per la relazione romantica con Gerda Taro (Taro è proprio il titolo della canzone sopracitata) e la capacità di porre sottotraccia, nella trama degli scatti, storie inusuali e personali, che incrociano la sua sensibilità a quelli dei soggetti ritratti.
Proprio su quest’ultimo aspetto si concentra la mostra Robert Capa. L’Opera 1932-1954, retrospettiva che Gabriel Bauret cura per il Museo Diocesano di Milano. 300 opere, divise in 9 sezioni, ripercorrono le tappe principali della carriera del fotografo di guerra, dagli esordi nel 1932 fino alla morte avvenuta nel 1954 in Indocina per lo scoppio di una mina. Ampio lo spazio dedicato al metodo di lavoro che Capa utilizzava, dal quale trapela la complicità e l’empatia che il fotografo riservava ai soggetti ritratti, soldati ma anche civili, sui terreni di scontro in cui ha maggiormente operato.
“Se le fotografie di guerra plasmano la leggenda di Capa, nei suoi reportage lo vediamo anche guardare la realtà da diversi punti di vista, concentrandosi su quelli che il fotografo Raymond Depardon definiva “tempi deboli”, in contrapposizione ai tempi forti che solitamente mobilitano l’attenzione dei giornalisti e richiedono loro di essere i primi e più vicini”, afferma Gabriel Bauret, che con “tempi deboli” fa riferimento ai frangenti dove le storie personali emergono dalla Storia universale, e il singolo si manifesta in tutta la sua umanità.
Lungo il percorso espositivo si trovano dunque immagini drammatiche come Morte di un miliziano lealista, fronte di Cordoba, Spagna, inizio settembre 1936, che per la prima volta, insieme agli scatti di altri fotografi professionisti inviati in prima linea e nelle città bombardate, documenta in senso moderno una guerra; ma anche fotografie che immortalano i momenti di svago del Tour de France, luglio 1939, simbolo di una vita che si sforza di scorrere nonostante lo spettro della battaglia; gli esiti della Seconda Guerra Mondiale emergono in istantanee di morte e resilienza come in Un prete cattolico celebra la messa sulla spiaggia di Omaha, Francia, Normandia, giugno 1944, dove vediamo la liturgia svolgersi in un contesto estremo.
Negli stessi anni, a chilometri di distanza, Capa documenta la risalita dell’Italia da parte degli Alleati e scova dell’inaspettata ironia di un Contadino siciliano che racconta a un ufficiale americano la direzione che avevano preso i tedeschi, vicino a Troina, in Italia, nell’agosto 1943; allo stesso tempo la festante esaltazione dei soldati russi e americani, che si divertono insieme a Berlino celebrando la fine della Guerra (Soldati americani, parte delle forze di occupazione alleate, ad una festa multinazionale, Berlino, Germania, 1945), è solo uno scorcio di pace in un mondo in conflitto; così la silenziosa e anonima sofferenza di Un uomo e una donna trasportano i loro averi in sacchi, Haifa, Israele, 1949 ricorda come ogni giorno il mondo sia solcato da tragedie che l’umanità – ora tanto piccola, ora invincibile – è chiamata ad affrontare.