Johny Alexandre Gomes, in arte JOTA, è nato nel 2000 a Honório Gurgel, nel complesso del Chapadão, una favela di Rio de Janeiro, dove vive con la compagna e dove ha costruito una casa considerata dalla comunità un cantiere aperto. Qui, giorno dopo giorno, edifica relazioni e coltiva la pittura da autodidatta, una ricchezza necessaria per sopravvivere alle complessità.
Dal Brasile, con tanti sogni, talento da vendere e ardore, JOTA approda a Milano nella galleria Mimmo Scognamiglio (via Goito 7), nel cuore di Brera. Qui espone per la prima volta una serie di dipinti di taglio documentaristico-fotografico, dal segno quasi primitivista, realizzati tra il 2023 e il 2024. Sono opere di nuova oggettività pseudo-realistica che rappresentano la complessa quotidianità di un giovane artista nero, alle prese con la vita nel suo quartiere, tra rapine, sparatorie, microdelinquenza e momenti di festa, convivialità sulla terrazza di casa, circondato da amici e familiari, con cibo, drink e cellulari sullo sfondo di paesaggi cementificati.
Il manifesto di questa mostra introspettiva è Dreams in Construction (2024), in cui l’artista brasiliano appare seduto nel soggiorno della sua casa ancora in costruzione, accaldato, in calzoncini e a torso nudo, circondato da strumenti di lavoro dipinti talmente bene che sembrano veri. Jota rimane immobile in un momento di pausa, avvolto da una luce verde-acido, effetto cromatico di un’immagine fotografica scattata da chissà quale cellulare, alla base del suo lavoro.
Scrive JOTA, ex muratore per “sbarcare il lunario” e non finire nel giogo tossico dello spaccio o delle rapine: “Porto sulle tele questa parte di me come qualcosa di positivo che posso usare per esprimere la mia realtà in modo profondo. Ma voglio portare anche l’esperienza del mio quartiere, le cose che accadono (nel bene e nel male) nella comunità”. E ci riesce magistralmente, dipingendo se stesso in sequenze pittoriche, quasi cinematografiche, di fatti e misfatti del suo quartiere turbolento, abitato da una comunità resiliente, in cui operai nei cantieri e persone che assistono casualmente a scene di delinquenza quotidiana si mescolano a ragazzi che indossano magliette griffate, scarpe Nike e altri loghi occidentali, simboli di una condizione sognata di una gioventù bruciata. E in questo inferno, i bambini riescono comunque a giocare a pallone tra una retata e l’altra di poliziotti armati fino ai denti che sparano all’impazzata, come nei film d’azione americani.
JOTA, tra fiction e realtà, combina concettualmente l’idea di costruzione, cantiere e casa alla sua pittura dal tratto sintetico e attitudine narrativa in progress, utilizzando dispositivi diversi, come tavole di skate riciclate (uno sport considerato dalla comunità un hobby per benestanti) e un giubbotto di jeans in perfetto stile cafonal-rapper, sul retro del quale compare un primo piano sfacciato di un sorriso con denti d’oro, come in Both Silver and Gold Belong to Me as Declares the Lord of Armies Haggai (2023). I titoli delle sue opere sono speculari alle scene rappresentate, fatti di cronaca che documentano con sensibilità pittorica i momenti di vita della comunità, proiettata nell’idea di costruire altro.
JOTA vive la favela come luogo, spazio, tempo e azione della sua arte, trovando nella pittura un’opportunità di riscatto economico e sociale. Vive una condizione agiata rispetto agli altri abitanti della favela e per questo è invidiato e guardato con sospetto dai brasiliani bianchi. Nel dipinto Poor is the Devil that Hates Ostentation (2023), JOTA si autoritrae sarcasticamente immerso in una piscina ricolma di monete d’oro, ci guarda sogghignante e ironico, consapevole che, nell’inferno della sua favela, che ha scelto di non abbandonare e dove probabilmente nasceranno i suoi figli, avere la possibilità di scelta tra bene e male, dipingere, essere liberi di costruire comunità affettive e coltivare momenti di serenità familiare è già una ricchezza.
La mostra, carica di sogni e aspettative di un futuro migliore, è consigliata a tutti gli scontenti occidentali, sempre insoddisfatti di se stessi e incapaci di riconoscere i valori non materiali della vita, per condividere qualche momento di felicità.