Sono solo foto molto semplici tratte da quel casino che è la vita.
La vita di tutti i giorni, la vita familiare di tutti i giorni.
La vita quotidiana di una famiglia.
Costellazioni di ordine e disordine che si susseguono senza soluzione di causa.
Come sono, come vorremmo che fossero. Ognuno ci legge quello che vuole, in relazione alla propria esperienza.
Quello che si vede dalla finestra, per esempio.
Questo è un album di famiglia allegro e disordinato, perentorio e disincantato, è così e basta.
Guardateli, guardateci.
Infatti questa mostra si chiama Gut. Potremmo tradurlo come panza. Interiora, quello che ci sta dentro. Modi di stare insieme, niente di più. Reti di relazioni, fondamentali però. Mamma, papà, nonno, figlio, figlia, uomo, donna, prima, dopo.
Noi, ci moltiplichiamo e ci trasformiamo.
Una farfalla, una falena forse, in una brocca, una foto in bianco e nero. Quasi un disegno, pura poesia.
Accanto a una donna incinta, una Maja semisvestita stesa sopra al suo uomo, invece che sul divano, sopra al suo c***o barzotto che ci prende di mira.
Il nesso tra sesso e maternità, così poco svelato, qui diventa molto chiaro.
Per fare i figli bisogna scopare, amarsi e avere un progetto di vita insieme. Dichiarazione di intenti basica e sincera ed elementare.
La dichiarazione, fatta dalla sottoscritta e non da Chetrit, che in mostra presenta autoritratti e ritratti dei familiari, oggi è molto attaccabile, quasi reazionaria, ne sono consapevole.
Mettere al mondo una vita richiede la responsabilità di prendersene cura.
Forse riscritta così, la dichiarazione incontra maggior consenso. Forse.
E così, la vita interiore si mescola a quella esteriore, edifici e schiene, sguardi e corpi, desideranti e non, passanti ignari ripresi dal primo piano, trentanni di vita chiusi in una trentina foto in una stanza, che ne apre altre trenta di stanze nelle nostre teste, nei corpi, nei quori, con la franchezza e la freschezza del non filtro.
Un’intimità rivelata, poesia quindi.
Da vedere.