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Film brutti. Ma così brutti da diventare bellissimi

Film brutti. Ma così brutti da diventare bellissimi La croce dalle sette pietre di Marco Antonio Andolfi
Film brutti. Ma così brutti da diventare bellissimi
La croce dalle sette pietre di Marco Antonio Andolfi

Film brutti. Ma così brutti da diventare bellissimi, quando il cinema fallisce e diventa leggenda. In libreria un viaggio nel mondo dei film così sbagliati da diventare irresistibili, tra inettitudine monumentale e vertigine sublime

Ci sono film che si ritagliano un posto speciale nel cuore della critica e del pubblico per il loro valore artistico, per la loro capacità di ridefinire il linguaggio del cinema, per il talento visionario di autori e per le performance memorabili degli interpreti… E poi ci sono film che si impongono nonostante sé stessi, che diventano oggetto di culto proprio perché falliscono in ogni aspetto canonico della narrazione audiovisiva. The Room di Tommy Wiseau (omaggiato anche da James Franco nel suo The Disaster Artist) è il caso esemplare, il punto zero di un cinema che si fa evento per la sua stessa inadeguatezza, un film che sfida ogni parametro della logica cinematografica: incoerente, sgangherato, girato senza alcuna consapevolezza tecnica, spericolato; i dialoghi sembrano assemblati a caso, la regia procede a tentoni, il montaggio è un inno alla discontinuità. Eppure, proprio in questa sua totale (ingenua) mancanza di misura, The Room si eleva. Perché se il brutto diventa così monumentale, così sfacciatamente inconsapevole da ribaltare ogni tentativo di giudizio razionale, allora siamo di fronte a un fenomeno estetico che travalica la mediocrità per sfociare nell’incredibile (eccolo, il fascino dell’assurdo, lo stupore di fronte all’incredibile). È l’abisso dell’inettitudine che si fa vertigine sublime, come un buco nero siderale a cui è impossibile resistere. Ma, come ci ricorda Andrea Carobbio in Film brutti. Ma così brutti da diventare bellissimi (Mimesis, 2025), Wiseau non è un caso isolato: è il sintomo di un universo cinematografico parallelo, popolato di opere che si muovono al confine tra la catastrofe e il miracolo.

L’analisi di Carobbio si snoda tra il rigore accademico e la vertigine del delirio cinefilo, attraversa titoli che hanno conquistato uno status mitologico proprio grazie alla loro incapacità di essere “buoni film”. Si va da Alien 2 di Ciro Ippolito, che trasforma il mito di Scott in un incubo a bassissimo budget (non nello spazio ma nelle grotte di Frascati), a Birdemic di James Nguyen: “Il film dovrebbe essere un thriller – scrive Carrobbio – dovrebbe terrorizzare a morte, e invece il pubblico ride a crepapelle. Le persone arrivano in sala sventolando degli appendini. Birdemic diventa un fenomeno popolare, un vero e proprio cult, e non tanto perché è brutto – anche se il fatto che lo sia in un modo spettacolare ha senza dubbio aiutato ad alimentarne il mito. No, Birdemic fa uscire di testa tutti quanti perché è genuino, autentico. Perché Nguyen non fa altro che rilasciare interviste in cui sostiene che il film è serio, fa paura, e che gli effetti speciali sono davvero scioccanti e terrificanti”; uccelli come metafora involontaria del disastro totale. E ancora: La croce dalle sette pietre di Marco Antonio Andolfi, che sembra girato da un Lucio Fulci con febbre alta, fino all’inclassificabile e contemporaneissimo The Lady di Lory Del Santo, che sfida ogni convenzione visiva e narrativa in nome di un’estetica che oscilla tra il kitsch e la pura metafisica: Lory del Santo “sa, però, che quando un’artista è troppo avanti rispetto ai suoi tempi, capita spesso che non venga compresa. E quindi non si arrende e inizia a sperimentare di proprio pugno, con la consapevolezza di partire già da basi solidissime: Del Santo, come Kubrick, ha iniziato anni prima con la fotografia, e ha un senso innato per la composi-zione. Cosa che, d’altra parte, risulta già evidente in quello che è il suo primo, vero cortometraggio da regista: The Night Club – Osare per credere, con Aída Yéspica e Gloria Contreras: un provocante viaggio notturno nell’esibizioni-smo più sfrenato, in cui l’uso soffocante delle luci al neon rubino e violacee ricorda il Nicolas Winding Refin di Only God Forgivess“. E molti altri ancora, dei veri propri viaggi cinematografici nei deliri di registi, sceneggiatori e produttori scriteriati.

C’è qualcosa di profondamente magnetico negli anfratti della cultura, nei meandri del cinema fatto di zozzerie e pellicole spazzature, Carobbio lo sa e lo dimostra andando oltre la facile ironia, cercando di capire cosa rende questi film così preziosi. Il brutto, quando raggiunge certi estremi, diventa esperienza estetica totalizzante, capace di generare una risposta emotiva, opposta probabilmente, ma non dissimile da quella del bello canonico. Non si tratta solo di ridere dell’incapacità tecnica, dei risultati disastrosi, dei goffi tentativi, delle storie produttive più strampalate (e lo sono!), ma di riconoscere come il cinema può trovare valore anche nelle sue distorsioni, nei suoi cortocircuiti espressivi, nelle sue catastrofi estetiche.

Ogni film di questa categoria è anche il ritratto del suo autore. Ciò che queste pellicole orrende è anche il loro essere testimonianze dirette di ambizioni smisurate e fuori controllo, di sogni infranti ma ostinatamente perseguiti. Storie di creatori privi di talento e di esperienza che, nonostante tutto, non hanno mai smesso di credere nel cinema come necessità espressiva. Che sia per narcisismo, incoscienza o pura ostinazione, questi autori hanno messo in scena il proprio universo interiore senza alcun filtro, senza alcun riguardo per il giudizio altrui. E proprio per questo, i loro film si elevano come monumenti all’ingenuità, all’entusiasmo sfrenato, all’arte intesa come atto disperato di resistenza.

In questo senso, il libro di Carobbio è molto più di un semplice catalogo di film “brutti”: è un saggio (a tratti spassoso, che non ha paura di immergersi nei temibili territori del ridicolo, dell’atroce, sempre sul crinale pericolosisismo  del trash) che ci costringe a ripensare le nostre categorie estetiche, che ci obbliga a riconoscere come il cinema sia un’arte che vive non solo di capolavori, ma anche di disastri. Ed è proprio nei disastri che, talvolta, troviamo la forma più pura e autentica di passione cinematografica. E, dopotutto, come osservava Luciano De Crescenzo: “Con il tempo, anche il bello diventa meno bello, e il brutto meno brutto. Bellezza e bruttezza, infatti, sono caratteristiche dei primi approcci; in seguito tendono ad avvicinarsi“.

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