Ci sono città che come scrigni custodiscono gelosamente la propria storia. Città che a prima vista catapultano il turista nel loro passato, dandogli la certezza che quel passato sia ancora lì, intatto e vivo, pronto ad essere assaporato, facendosi beffa dello scorrere del tempo. E` la sensazione che si prova varcando le mura di Siena, città in cui ogni pietra rivela misteri medievali e trasuda l’entusiasmo di un nascente umanesimo, poco più a sud dell’acerrima rivale culla fiorentina.
Nella cornice di palazzi che disegnano Piazza del Campo simboleggiando – come narra la tradizione – il mantello della Vergine che avvolge e protegge la città a lei devota, fervono i preparativi dell’imminente Palio dell’Assunta, corso e vinto lo scorso 16 agosto dalla Contrada della Civetta. Transennata e quasi pronta ad accogliere la giostra medievale che da secoli mette in competizione le diciassette contrade senesi, la piazza trecentesca è sorvegliata dalla Torre del Mangia, che svetta sul Palazzo Pubblico, gettando lo sguardo sulla candida Fonte Gaia di Jacopo della Quercia. La sua altezza (88 metri) equipara quella del campanile del Duomo, tanto da indicare la raggiunta parità tra potere religioso e politico. E il primo orologio meccanico della storia, posto proprio sulla Torre ne sottolinea il concetto divenendo testimone di un passaggio di consegne: se fino ad allora il tempo era una prerogativa religiosa, legato alla successione delle liturgie, dal XVI secolo si affianca e avanza una misurazione laica della vita.
E Ambrogio Lorenzetti lo conferma. I suoi affreschi nella Sala del Consiglio dei Nove del Palazzo Pubblico eludono per la prima volta nel Medioevo il carattere religioso e danno vita al primo ciclo di soggetto profano, segnato da una spiccata vena politica e civile: Allegorie ed effetti del Buono e del Cattivo Governo in città e nel contado. Mentre più fedeli alla tradizione e devote alla Vergine restano le Maestà di Duccio di Buoninsegna e di Simone Martini, rispettivamente conservate nel Museo dell’Opera del Duomo e nella Sala del Mappamondo di Palazzo Pubblico.
Per strada le bandiere delle contrade sventolano in una danza che rievoca i segnali di guerra: si avvolgono su se stesse e si librano in aria in vorticosi lanci e scambi ad opera di abili arcieri. Guai a chiamarli sbandieratori. I tamburi rullano e gli addetti ai lavori stendono uno strato di terra composto da una miscela di tufo, argilla e sabbia sull’anello di pietra serena in Piazza del Campo, che sarà scenario della vittoria di un Palio in bilico tra religiosità e scaramanzia. Un inesplicabile binomio che trova compimento nel Duomo, la cui navata centrale è scandita dalle diciassette bandiere delle contrade.
Anche il capolavoro di architettura religiosa, a metà strada tra il gotico e il romanico, rende omaggio alla Vergine, patrona della città, esaltando il culto mariano già caro ai senesi. Ritmato dalla bicromia bianca e nera di pilastri polistili e dalla successione di archi a tutto sesto che smorzano la verticalità della struttura, il Duomo senese accoglie preziosi gioielli d’arte italiana: dal duecentesco Pergamo di Nicola Pisano, alla cinquecentesca Libreria Piccolomini firmata da Pinturicchio su commissione del cardinale Francesco Todeschini Piccolomini; dalle statue di Giovanni Pisano, alle cappelle realizzate da Donatello e Gian Luigi Bernini, fratello del più rinomato Gian Lorenzo.
L’occhio cade poi verso il basso, sul pavimento in opus sectile, “il più bello, grande e magnifico che fusse stato fatto” secondo la definizione di Giorgio Vasari, che non solo illustra scene di argomento religioso, ma racconta anche della città stessa, dalla sua fondazione avvenuta sotto il segno della Lupa Capitolina – poi Lupa Senese – ad opera di Senio e Ascanio, figli di Remo in fuga dallo zio fratricida, alle rappresentazioni delle città alleate.
In un imperterrito sali e scendi per i vicoli di Siena, soffermandosi ad ammirare i numerosi scorci, le vedute della città e le terrazze aperte sui colli circostanti, prima di allontanarsi dall’allure medievale di un borgo che appare senza tempo, si arriva alla vera casa, ora santuario, di Santa Caterina, patrona d’Italia dal 1939. E poco distante, la Fontebranda, la più importante fontana della città utilizzata dai tintori – tra questi anche il padre della santa senese – che Dante cita così nel XXX canto dell’Inferno:
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.