Dal 16 Novembre 2019 al 6 gennaio 2019 il Museo di Santa Giulia di Brescia ospita la prima personale istituzionale dell’artista, attivista e giornalista curda Zehra Doğan. 60 lavori inediti, realizzati insieme alle compagne detenute nelle carceri turche durante la condanna di due anni e nove mesi per propaganda terroristica.
Storicamente vittima e carnefice di conflitti, il Medio-Oriente è uno dei quadri più rappresentativi delle dinamiche geopolitiche mondiali. Da sempre luogo di scontro di appetiti economici, contraddizioni sociali, politiche e religiose: il tutto offuscato dal velo arbitrario del cosiddetto Diritto Internazionale. Dopo il fallito golpe militare del luglio 2016, Recep Tayyip Erdoğan (Istambul, 1954) ha instaurato in Turchia e nei dintorni un vero e proprio regime dittatoriale, intensificando controlli e censure, non solo verso organizzazioni politiche, ma anche nel campo dell’educazione e della cultura. Vengono sospesi dall’insegnamento pubblico 15.200 dipendenti, per non parlare del numero di giornalisti, deputati e intellettuali arrestati. La condizione dei Curdi e in generale di chi abita al confine tra Siria e Turchia peggiora notevolmente, proliferano le vittime di soprusi, violenze e stermini da parte dell’esercito turco e dei miliziani Jihadisti.
L’anno del golpe Zehra Doğan (Diyarbakir, 1989) si trova a Nusaybin, una città a maggioranza curda al confine con la Siria occupata dall’esercito turco, in veste di giornalista e attivista. Già fondatrice di un’agenzia di stampa femminista, JINHA, nel 2015 le era stato attribuito il premio Metin Göktepe per aver portato alla luce la storia delle donne Yazide, una minoranza nel nord dell’Iraq violentata e ridotta a schiavitù da parte dell’autoproclamato Califfato. Ma questa volta è diverso, a Nusaybin i giornalisti non sono ammessi, tanto che l’ONU nei mesi successivi deve ricorrere alle immagini da satellite per verificare quanto accaduto. Zehra vive lì in condizioni precarie, riportando interviste alla popolazione su un diario di bordo che cartografa con disegni. Poi conosce Elif Akboğa, una bambina locale di undici anni che le consegna una lettera molto toccante:
“Questa mattina, mentre ero a scuola, è stato annunciato il coprifuoco. Abbiamo interrotto le lezioni e siamo corsi a casa. Io sono arrivata appena in tempo, se non ce l’avessi fatta sarei morta. In ogni caso, non abbiamo più la scuola. Non ci siamo più potuti andare quest’anno, ma voi continuate a studiare e create un mondo bello. Non dimenticateci mai e cambiate anche i canali alla televisione, guardate i nostri. Ci sono raccontate le verità”.
È proprio questa lettera a costituire uno dei capi d’accusa del processo che condurrà al verdetto di condanna per la giornalista. L’altro oggetto, su cui si sono concentrati maggiormente l’opinione pubblica e i censori, è un disegno. Durante i cinque mesi di coprifuoco a Nusaybin, Zehra è costretta a utilizzare i mezzi che può per registrare ciò che le accade intorno e fa uso anche del social network più politico e giornalistico per eccellenza: Twitter. Un giorno vede una fotografia pubblicata dall’account degli Jöh Pöh (polizie speciali) corredata da commenti vittoriosi. Così decide di riportare l’immagine sul suo diario, disegnando i carri armati con tratti da scarabeo, un simbolo, soprattutto per la cultura medio-orientale, molto offensivo. Da qui la ripubblicazione dell’immagine su Twitter e, da li a poco, l’arresto per propaganda terroristica. Due anni e nove mesi di carcere: Mardin, Diyarbakir e quello di massima sicurezza di Tarso. In prigione condivide la cella sempre con altre 30/50 detenute; le manca l’aria, ma quando inizia a conoscerle meglio la reclusione diventa la sua grande ora d’aria. Scopre che ogni donna ha una storia di resistenza, ma anche bisogno di condividerla e metterla in discussione. Così non resta che lottare insieme, attraverso ogni mezzo che avevano a disposizione.
Zehra, che si era diplomata in Arte e Design nella sua città d’origine all’università di Dicle, riprende in mano il pennello. Questa volta al posto dei colori ci sono curcuma, caffè, cenere di sigaretta, sangue mestruale e altri residui organici, mentre i supporti spaziano da semplice carta da pacchi a lenzuoli e federe già ricamate, asciugamani sporchi e drappi di indumenti.
“Tutte le nostre amiche hanno lo spirito dei piccoli generali di Apê Musa – bambini curdi che distribuivano giornali vietati, censurati o sequestrati dal governo. Diciamo che poiché il saluto degli umani non viene da Dio e deve essere per forza sulla Terra, cerchiamo di fare delle prigioni uno spazio di lotte. Forse non sarò mai liberata, siamo in Turchia dopotutto. Ma so che distruggerò le prigioni con la mia penna e il mio pennello”.
Tutto questo lavoro Zehra non lo svolge in maniera autonoma, ma è frutto e allo stesso tempo motore di laboratori collettivi: condivisioni di idee, stimoli, pensieri, e soprattutto sogni. Tutti elementi che non possono essere arginati da quattro mura. Il processo di co-creazione non è da intendersi in senso tradizionale: i dipinti non sono realizzati per forza a più mani, ma sicuramente sono il risultato di confronti e relazioni in carcere. “Il processo spesso partiva da un evento casuale”, spiega Zehra, “una macchia di caffè, un’ombra presente sull’oggetto che si sta usando come supporto, la tessitura di una stoffa, una stampa”. Se si beveva un caffè alla settimana, diventava l’occasione per “provare nuove forme”, decidere collettivamente a cosa assomigliava la macchia e come procedere sul supporto. La prima mostra di Zehra ha luogo proprio in carcere, quello di Mardin, con tanto di cocktail per l’inaugurazione creato senza alcool ma con spezie e ingredienti di fortuna. Le tele, per lo più indumenti e asciugamani, sono appese con mollette alle corde dello stendino. La seconda, grazie alla cara amica Naz Oke, alla quale Zehra riusciva a passare i dipinti attraverso il cambio panni settimanale, e alla curatela straordinaria di Elettra Stamboulis (Bologna, 1969), è visitabile al Museo di Santa Giulia fino al 6 gennaio 2020, con possibilità di proroga.
In occasione del terzo anno del festival della pace, l’artista, attualmente in esilio volontario a Londra, grazie a PEN International, sarà anche presente il 22 novembre a Brescia con una performance inedita. La mostra vuole essere un espediente esterno all’Italia per riflettere sulle ingiustizie interne al Bel Paese. “A pochi giorni dalla tanto attesa condanna del poliziotto che ruppe a colpi di manganello la spina dorsale al detenuto Stefano Cucchi”, afferma il direttore del museo Stefano Karadjov, “l’inaugurazione della mostra di Zehra sembra cadere a pennello”. Il Titolo Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche è un omaggio al poeta turco Nâzım Hikmet Ran (1902-1963) con cui Zehra condivide l’incarcerazione per fini politici, ma soprattutto la resistenza culturale in prigione, e di cui sono riportati sui muri del museo alcuni frammenti poetici. La mostra, il cui allestimento è minimale per ricordare la dimensione carceraria, è suddivisa per sezioni, volutamente non cronologiche, che distinguono tre atteggiamenti pittorici e poetiche differenti.
La prima sala è quella delle macchie, errori, da cui l’artista e le compagne detenute partono per costruire nuovi immaginari, spesso astratti e inquietanti. D’altronde come dice il pittore Emilio Isgrò ( 1937, Barcellona) “Tutta la storia dell’Arte è la storia di un errore”. Per Zehra partire da una macchia è anche una strategia per slegarsi da quell’atteggiamento narcisistico e autoreferenziale in cui può ricadere l’artista. In questa sezione sono presenti anche disegni e dipinti realizzati con il mestruo, che da un lato rimanda al sangue versato ai confini turchi, dall’altra era uno dei pochi mezzi di cui Zehra disponeva in carcere per qualche giorno al mese.
Le sale successive vedono la presenza di numerosi corpi femminili, dalle forme sensuali ma anche inquietanti, dato che spesso i dipinti prendono ispirazione dagli incubi delle sue compagne detenute. Emblematico il dipinto, nonché locandina del progetto espositivo, raffigurante una donna dalla cui testa fuoriesce la mano di Fatima, un riferimento alla cultura popolare ma anche la necessità per Zehra di rappresentare l’occhio vigile del giornalista. Sono esposti anche alcuni numeri di Özgür Gündem, il giornale di cronaca che Zehra e le compagne detenute hanno realizzato in cella per raccontare le condizioni carcerarie. Notizie scritte manualmente e illustrazioni, per dimostrare ancora una volta che fare cultura passa necessariamente per il fare politica.
Nella successiva e ultima sezione, oltre ai numerosi simboli – soprattutto animaleschi – anche episodi dallo sfondo sociale e politico. Afrin (2018) è un riferimento diretto alla città siriana a maggioranza curda, obiettivo dell’operazione “Ramoscello d’ulivo” nel 2018. Un massacro contemporaneo che Zehra decide di raccontare attraverso il filtro della resistenza cittadina, animata dalla volontà di creare una regione libera e autonoma. Nonostante il dipinto ritragga un episodio storico preciso, i rimandi spazio-temporali sono innumerevoli; il direttore sottolinea ad esempio un parallelo sorprendente con i Profughi di Francesco Hayez (1831), quadro facente parte della collezione del Museo di Santa Giulia. L’ultima opera esposta è una camicia incorniciata sulla cui stoffa le compagne detenute hanno inciso i propri pensieri. Non è un feticcio, né un canto vittimista, infatti per l’artista “lavorare con le donne del carcere è stato un lusso, un’occasione di formazione personale e la possibilità di costruire una serie di attività collettive di resistenza”.
Titolo: Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche.
A cura di Elettra Stamboulis
Date: 16 novembre 2019 – 6 gennaio 2020
Luogo: Museo di Santa Giulia, via Musei 81/b – 25121 Brescia
Inaugurazione: venerdì 15 novembre, ore 19.00
Sala conferenze di Santa Giulia, via Piamarta 4 – Brescia
Orari: Martedì – Venerdì | 09.00 – 17.00
Sabato – Domenica – Festivi | 09.00 – 18.00
Chiuso tutti i lunedì non festivi
Info: tel. 030 2977833 – 834 web. www.bresciamusei.com